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Prefazione al volume
Notizie biobibliografiche di Alessandro Dumas
 
Capitolo primo
Come Alessandro Dumas decide di visitare i luoghi di Pasquale Bruno
 
Capitolo secondo
Come a Gemma appare allo specchio, tra le stelle e la sua testa d'angelo, un'ombra
 
Capitolo terzo
E la tarantella intorno al cadavere dura fino all'ultima battuta della musica
 
Stampato nel 1988 da Lo Presti Editore -Capo d'Orlando (ME)
 

Pasquale Bruno, protagonista di questo romanzo di Alessandro Dumas padre, è un bandito vissuto in Sicilia tra la fine del 1700 e il primo decennio del 1800. Ma è un bandito particolare che incarna l'ideale romantico dell'eroe insofferente di ogni freno, amante della libertà, grande anche nella sventura e nel dolore. In una società profondamente ingiusta, costituita da masse enormi di infelici e di indifesi, esposti ai torti e ai soprusi dei prepotenti, si schiera dalla parte dei più deboli, che gli dimostrano la loro premurosa riconoscenza vigilando su di lui e sulla sua incolumità.

Nonostante ciò, Pasquale è un uomo profondamente solo, che vive la sua inquieta esistenza al di fuori e al di sopra del consorzio umano. Suoi soli amici sono un ragazzo africano, un brigadiere dei gendarmi, quattro cani corsi e un cavallo mezzo arabo e mezzo montanaro come lui. In preda alle più travolgenti passioni, sconvolto dai tormenti dell'anima, divorato dal sentimento della vendetta, si esalta nell'azione, nel rischio, nell'avventura.

E Dumas non può non amare un simile personaggio, che rispionde esattamente ai canoni della sua arte, che predilige la vita, il movimento, l'istinto, l'azione.

Sullo sfondo delle avvincenti avventure di Pasquale, c'è la Sicilia prerisorgimentale; la Sicilia delle masse di poveri, di affamati, trasmigranti tra città e campagna; la Sicilia priva dei più elementari servizi necessari al vivere civile, senza strade, in condizioni igieniche e di sottosviluppo socxio-economico veramente paurose. Ma, tuttavia, una Sicilia magnifica per i resti delle sue passate civiltà, per la bellezza della sua natura incontaminata e selvaggia, per i costumi e le tradizioni del suo popolo istintivo e ospitale.

Giuseppe Celona

 

Alexandre Dumas, padre, nacque nel 1802 a Villers-Cotterets dal generale napoleonico Alexandre Davy de la pailletterie e morì a Puys nel 1870.

Rimasto orfano in tenera età, ricevette un'educazione sommaria dalla madre e da un sacerdote. Trasferitosi a Parigi nel 1823, si dedicò a lavori modesti e saltuari. Dopo i primi successi teatrali e il fallimento dell'avventura politica, iniziò una serie di viaggi che lo portarono in molti paesi europei (Svizzera, Italia, Spagna...), da cui ricavò le sue celebri Impressions de voyage. Nel 1860 si incontrò a Genova con Garibaldi cui dedicò Les Garibaldiens e Memoires de Garibaldi.

Drammaturgo, romanziere e memoriamlista, deve la sua fama soprattutto a una serie di romanzi di grande successo, tra i quali ricordiamo: Le comte de Montecristo (Il conte di Montecristo, 1844), Les trois mousquettaires ( I tre moschettieri, 1844), Vingt ans après (Vent'anni dopo, 1845), Le vicomte de Bagelonne (Il visconte di Bragelonne, 1848-49).

Il romanzo Pasquale Bruno, da me tradotto e dato alle stampe nel 1988, è stato pubblicato da Dumas a Parigi nel 1838 col titolo di Pascal Bruno. Delle imprese di questo singolare bandito avevo sempre sentito parlare fin dalla mia prima infanzia. Se ne parlava frequentemente in casa mia, dove un mio vecchio zio raccontava, nelle lunghe serate d'inverno trascorse dall'intera famiglia, tra il dormiveglia, attorno al braciere, le avventure più rischiose ed entusiasmanti del nostro eroe paesano. Proprio così: Pasquale Bruno era nato e vissuto nel mio paese, Villafranca Tirrena, allora Bauso, in provincia di Messina. Ricordo che ascoltavo con trepidazione, schierandomi apertamente e sfacciatamente con lui - il buono, il forte, il generoso, il protettore dei deboli e degli oppressi - contro i cattivi (il conte di Castelnuovo che aveva violentato la madre di Pasquale e aveva fatto decapitare suo padre che lo aveva ferito, la contessa Gemma, figlia del conte e moglie del viceré di Sicilia che aveva ostacolato e vietato l'amore di Pasquale per Teresa, i gendarmi che tentavano, inutilmente, di prenderlo, Placido Meli, il traditore di Pasquale....). Di sera, l'ascolto dei cunti (i racconti) del bandito-eroe; di giorno lescorribande con i miei compagni di giochi nei luoghi dove era vissuto e aveva compiuto le sue gesta strepitose Pasquale. C'erano dei momenti in cui mi sembrava di vederlo apparire sulle mura del castello, o attraverso una feritoia della fortezza nell'atto di scarica il suo fucile sui gendarmi che da diversi giorni lo assediano senza risultato alcuno; o di vederlo uscire sul suo magnifico cavallo arabo, seguito dai suoi quattro feroci cani corsi, dalla porta del maniero e percorrere in pochi istanti distanze enormi, da un capo all'altro della Sicilia...

Credevo che i racconti fioriti attorno a questo straordinario personaggio fossero frutto della fantasia dei miei paesani e che si fossero tramandati, di bocca in bocca, di generazione in generazione, fino ai tempi della mia fanciullezza. Vi lascio immaginare, perciò, la mia meraviglia quando, studente della facoltà di Lettere all'Università di Messina, scoprii che di tali racconti, di tale tradizione orale si era impossessato il grande scrittore francese Alessando Dumas padre, ricavandone uno dei suoi più interessanti libri, ma anche tra i più ingiustamente ignorati. Da allora coltivai la voglia di leggere il romanzo di Dumas nell'originale, di tradurlo e di darlo alle stampe. Cosa che ho fatto, appunto, nel 1988.

Di questa bellissima storia do, qui di seguito, qualche significativo assaggio, rimandando quanti avessero voglia di leggere l'intera storia al mio volume.

 

... Non mi restava che mettermi sulle tracce di un profugo siciliano, di nome Palmieri, che avevo incontrato in passato, ma di cui avevo smarrito il recapito. Da poco aveva dato alle stampe due ottimi volumi di ricordi e avrebbe potuto, perciò, anticiparmi sulla sua isola, così poetica e così poco conosciuta, quelle informazioni generali e quelle indicazioni specifiche che sono come le pietre miliari di un viaggio. Ma una sera vedemmo arrivare al n. 4 del sobborgo Montmartre il generale T con Bellini, al quale non avevo affatto pensato. Me lo conduceva per completare l'itinerario del mio viaggio. Non è il caso di chiedere come sia stato accolto l'autore della Sonnambula e della Norma nel nostro circolo interamente dedito all'arte, dove spesso il fioretto era solo un pretesto preso a prestito dalla penna o dal pennello.

Bellini era di Catania. La prima cosa che i suoi occhi, aprendosi, avevano visto, erano state le onde che, dopo aver bagnato le mura di Atene, vengono a spegnersi melodiosamente sulle rive di un'altra Grecia; e l'Etna favolosa e antica, sui cui fianchi vivono ancora, dopo diciotto secoli, la mitologia di Ovidio e i racconti di Virgilio. Ecco perché l'indole di Bellini era tra le più poetiche che si potessero incontrare; e il suo genio, che bisogna apprezzare con il sentimento e non giudicare con la ragione, un canto eterno, dolce e malinconico come un ricordo; un'eco simile a quella che se ne sta assopita nei boschi e sulle montagne, e che sussurra appena fino a quando il grido delle passioni e del dolore non venga a svegliarla. Bellini era l'uomo che faceva al caso mio. Aveva lasciato la Sicilia ancora giovane, e dell'isola nativa gli era rimasta una memoria crescente, dentro la quale custodiva religiosamente, lontano dai luoghi in cui era cresciuto, i ricordi poetici dell'infanzia.

Siracusa, Agrigento, Palermo si aprirono così davanti ai miei occhi: magnifico panorama allora a me sconosciuto, rischiarato dai bagliori della sua fantasia. Infine, passando dalle notizie topografiche ai co stumi del paese, sui quali non mi stancavo di consultarlo:

- Ascoltate, - mi disse, - non dimenticate di fare una cosa quando andrete da Palermo a Messina, per mare o per terra. Fermatevi al piccolo villaggio di Bauso, vicino al promontorio di Capo Bianco. Di fronte a una locanda, troverete una strada in salita delimitata a destra da un piccolo castello a forma di cittadella. Alle mura di quel castello vi sono due gabbie: una di esse è vuota, nell'altra biancheggia da vent'anni una testa di morto. Domandate al primo viandante che incontrerete la storia dell'uomo a cui appartenne quella testa, e avrete uno di quei racconti completi che dipingono tutta una società, dalla montagna alla città, dal contadino al gran signore.

- Ma, - risposi a Bellini, - non potreste raccontarci voi stesso questa storia? Dal modo con cui ne parlate, si vede che ne avete conservato un profondo ricordo.

- Non chiederei di meglio, - mi disse, - perché Pasquale Bruno, che ne è l'eroe, è morto proprio l'anno della mia nascita, e io sono stato cullato, fin dalla più tenera età, da quella tradizione popolare ancora oggi viva, ne sono sicuro. Ma come potrei raccontare una tale storia con il mio cattivo francese?

- E' solo per questo? - risposi. - Ma noi tutti comprendiamo l'italiano; parlateci la lingua di Dante: essa val bene un'altra.

- Ebbene, sia! - riprese Bellini, porgendomi la mano. - Ma a una condizione.

- Quale?

- Che al vostro ritorno, dopo aver visitato quei luoghi, dopo esservi ritemprato in mezzo a quella popolazione selvaggia e a quella natura pittoresca, scriviate un romanzo su Pasquale Bruno.

- Perdio, d'accordo! - esclamai, tendendogli la mano.


E Bellini raccontò la storia che state per leggere.

Sei mesi dopo partii per l'Italia, visitai la Calabria, sbarcai in Sicilia. Ma quello che sempre mi appariva, fra tutti i grandi ricordi, come il luogo desiderato, come la meta del mio viaggio, era la tradizione popolare che avevo udito dalla bocca del musicista-poeta, e che venivo a cercare da ottocento leghe lontano. Infine, giunsi a Bauso, vidi la locanda, andai su per la strada, scorsi le due gabbie di ferro, una delle quali era vuota, l'altra piena.

Dopo un anno di assenza ritornai a Parigi. Ricordandomi dell'impegno preso e della promessa da adempiere, cercai Bellini.

Trovai una tomba.

 

D'un tratto, le sembrò che un'ombra, alzandosi, si ponesse davanti a quelle stelle e che una figura si delineasse alle sue spalle. Si girò di scatto. Un uomo stava in piedi sulla finestra. Gemma si alzò e aprì la bocca per gettare un grido, ma lo sconosciuto, lanciandosi nella stanza, congiunse le mani e con voce supplichevole:

- In nome del cielo, - le disse, - non chiamate nessuno, signora, perché, sul mio onore, non avete nulla da temere, e io non voglio farvi alcun male!

Gemma ricadde a sedere sulla poltrona. Il momento di silenzio che seguì a quella apparizione e a quelle parole, le diede il tempo di gettare un'occhiata rapida e timorosa sullo straniero che si era appena introdotto nella sua stanza in un modo così bizzarro e strano.

Era un giovane di venticinque ventisei anni che, a prima vista, si pensava dovesse appartenere alla classe del popolo. Portava un cappello calbrese, fasciato da un largo nastro che gli ricadeva ondeggiante sulla spalla; una giacca di velluto con bottoni d'argento; pantaloni della stessa stoffa e con le stesse guarnizioni, stretti alla vita da una fascia di seta rossa con ricami e frange verdi come quelle che si fanno a Messina, a imitazione di quelle lavorate in Oriente. Infine, gambaletti e scarpe di cuoio completavano il costume montanaro, che non mancava di una certa eleganza e che sembrava fatto apposta per mettere in risalto le belle e armoniose forme del corpo di chi lo indossava. Il volto era di una bellezza selvaggia: aveva tratti fortemente marcati propri dell'uomo meridionale, occhi arditi e fieri, capelli e barba neri, naso aquilino e denti perfetti.

Naturalmente Gemma non fu affatto rassicurata da questo esame, tanto più che lo straniero, vedendole allungare il braccio verso il tavolo per cercare il campanello d'argento che vi era sopra:

- Non mi avete udito, signora? - le disse con quel tono di infinita dolcezza a cui si presta tanto bene il dialetto siciliano. - Non voglio farvi alcun male anzi, al contrario, se mi concederete la grazia che vengo a chiedervi, vi adorerò come una madonna. Già voi siete bella come la madre di Dio: siate anche buona come lei.

- Ma finalmente che volete da me? - disse Gemma con voce ancora tremante. - E come vi siete permesso di entrare in questo modo, nella mia stanza, a quest'ora?

- Se avessi chiesto un abboccamento a voi, nobile, ricca e amata da un uomo che è quasi un re, avrei potuto sperare che l'avreste concesso, a me, povero e sconosciuto? Ditemelo, signora. Del resto, se pure aveste avuto tale bontà, avreste potuto tardare a rispondermi, e io non avevo il tempo di aspettare.

- Ebbene, che posso fare per voi? - disse Gemma rassicurandosi sempre di più.

- Tutto, signora. Perché avete nelle vostre mani la mia disperazione o la mia felicità, la mia morte o la mia vita.

- Non vi capisco. Spiegatevi.
- E' al vostro servizio una giovane di Bauso.
- Teresa?

- Sì, Teresa - aggiunse il giovane con voce tremante. - Questa giovane, che sta per sposare un cameriere del principe di Carini, è la mia fidanzata.

- Ah, siete voi?

- Sì, è me che stava per sposare quando ricevette la lettera con cui la chiamavate presso di voi. Mi promise di restarmi fedele, di parlarvi di me e, se voi aveste respinto la sua richiesta, di venirmi a tro vare. L'aspettavo, infatti. Ma sono trascorsi tre anni senza più rive derla e, poiché non è tornata lei, sono venuto io. Al mio arrivo ho saputo ogni cosa, perciò ho pensato di venirmi a gettare ai vostri piedi e chiedervi Teresa.

- Teresa è una giovane che amo e da cui non intendo separarmi. Gaetano è il cameriere del principe: sposando lui, mi resterà vicina.

- Se questa è una condizione, entrerò al servizio del principe, - disse il giovane, mostrando chiaramente di fare violenza a se stesso.

- Teresa mi aveva detto che non volevate fare il servo.

- E' vero. Tuttavia, se ciò si rendesse necessario, farei questo sacrificio per lei. Solo, se fosse possibile, preferirei essere assunto come campiere anziché come domestico.

- Va bene, ne parlerò al principe, e se egli acconsente

- Il principe vorrà tutto ciò che vorrete voi, signora: voi non pregate, voi ordinate, io lo so.

- Ma chi mi garantirà per voi?
- La mia riconoscenza eterna, signora.
- E' necessario, inoltre, ch'io sappia chi siete.

- Sono un uomo di cui potete fare l'infelicità o la felicità. Ecco tutto.

- Il principe mi chiederà il vostro nome.

- Che gli importa il mio nome? Lo conosce forse? Il nome di un povero contadino di Bauso è mai giunto fino al principe?

- Ma io sono del vostro stesso paese. Mio padre era conte di Castelnuovo e abitava in una piccola fortezza a un quarto di lega dal villaggio.

- Lo so, signora, - rispose il giovane con voce cupa.

- Ebbene, io devo conoscere il vostro nome. Ditemelo, dunque, e vedrò se potrò fare qualcosa.

- Credetemi, signora contessa, è meglio che l'ignoriate. Che importa il mio nome? Sono un uomo onesto, renderò felice Teresa e, se occorre, mi farò uccidere per il principe e per voi.

- La vostra ostinazione è strana. E a maggior ragione insisto a co noscere il vostro nome in quanto, avendolo chiesto a Teresa, anche lei, come voi, si è rifiutata di dirmelo. Vi avverto, perciò, che non farò nulla se non a questa condizione.

- Voi lo volete, signora?
- Lo esigo.
- Ebbene, per l'ultima volta, ve ne supplico.

- O dite come vi chiamate o uscite! - disse Gemma con gesto di co mando.

- Mi chiamo Pasquale Bruno, - rispose il giovane con voce tanto calma da far credere che tutta l'emozione fosse svanita, se, dal pallore del viso, non si indovinasse chiaramente quanto soffrisse dentro.

- Pasquale Bruno! - esclamò Gemma, indietreggiando con tutta la poltrona, - Pasquale Bruno! Sareste voi il figlio di Antonio Bruno la cui testa si trova in una gabbia di ferro al castello di Bauso?

- Sono suo figlio.

- Ebbene, ditemi: sapete perché la testa di vostro padre si trova lì?

Pasquale restò zitto.

- Perché vostro padre - continuò Gemma, - tentò di assassinare il mio.

- Conosco bene tutta questa storia, signora. E so anche che, portandovi a passeggio nel villaggio quand'eravate ancora bambina, le cameriere e i servi vi mostravano quella testa e vi dicevano che era di mio padre che aveva tentato di assassinare il vostro. Ma non vi dicevano, si gnora, che vostro padre aveva disonorato il mio.

- Voi mentite.

- Dio possa punirmi se non dico la verità, signora. Mia madre era bella e onesta, il conte l'amò, e mia madre resistette a tutte le proposte, a tutte le promesse, a tutte le minacce. Ma un giorno che mio padre era andato a Taormina, egli la fece rapire da quattro uomini che la portarono in una piccola casa di sua proprietà, tra Limeri e Furnari, oggi diventata locanda E là là, signora, egli la violentò!

- Il conte era signore e padrone del villaggio di Bauso: gli abitanti gli appartenevano, corpo e beni. Amando vostra madre, le faceva un grande onore!

- A quanto pare, mio padre non la pensò così, - disse Pasquale, aggrottando le sopracciglia. - Infatti, era nato a Strilla, sulle terre del principe di Moncada-Paternò, e certamente questa circostanza lo spinse a ferire il conte. La ferita non fu mortale. Meglio così. Me ne sono rammaricato a lungo, ma oggi, a mia vergogna, ne sono contento.

- Se ricordo bene, non solo vostro padre è stato messo a morte come omicida, ma anche i vostri zii sono in galera.

- Avevano dato asilo all'assassino e lo avevano difeso quando gli sbirri erano andati ad arrestarlo. Furono considerati complici, e mio zio Placido fu mandato a Favignana, mio zio Pietro a Lipari, mio zio Peppe a Vulcano. Quanto a me, ero troppo piccolo; tuttavia, mi arrestarono insieme a loro, ma poi mi restituirono a mia madre.

- E che ne è stato di vostra madre?
- E' morta.
- Dove?
- Sulle montagne, tra Pizzo di Gotto e Nisi.
- Perché aveva lasciato Bauso?

- Per non vedere, tutte le volte che passavamo davanti al castello, lei, la testa del marito e io, la testa di mio padre. Sì, è morta là, senza medico e senza prete. E' stata sepolta fuori della terra consacrata, e fui io il suo solo becchino Allora, signora - mi perdonerete, spero - sulla terra appena rivoltata, ho fatto il giuramento di vendicare tutta la mia famiglia, della quale restavo io solo (non considero più i miei zii appartenenti a questo mondo) su di voi che siete la sola superstite della famiglia del conte. Ma, che volete? Mi innamorai di Teresa, lasciai le mie montagne per non vedere più la tomba verso la quale sentivo di diventare spergiuro; scesi al piano, mi avvicinai a Bauso e feci ancora di più. Appena venni a sapere che Teresa lasciava il villaggio per entrare al vostro servizio, pensai di mettermi anch'io al servizio del principe. Lottai a lungo contro questo pensiero. Infine, mi ci abituai. Presi la decisione di vedervi. Vi ho visto, ed eccomi qui, disarmato e supplice, di fronte a voi, signora, davanti a cui avrei dovuto presentarmi come nemico.

- Comprenderete - rispose Gemma, - che è impossibile che il principe prenda al suo servizio un uomo che ha avuto il padre impiccato e ha gli zii in galera.

- Perché no, signora, se quest'uomo è disposto a dimenticare che queste cose sono state fatte ingiustamente?

- Siete pazzo!

- Contessa, sapete cosa significa un giuramento per un montanaro? Ebbene, io verrò meno al mio giuramento. Sapete cos'è la vendetta per un Siciliano? Ebbene, rinuncerò alla mia vendetta Non chiedo altro che di dimenticare tutto. Non costringetemi a ricordare.

- Nel qual caso, che fareste?
- Non voglio neppure pensarci.
- Bene. Ci regoleremo di conseguenza.

- Ve ne supplico, contessa, siate buona con me. Vedete che faccio il possibile per restare un uomo onesto. Una volta che sarò al servizio del principe, una volta che sarò il marito di Teresa, potrò rispondere di me D'altronde, non farò più ritorno a Bauso.

- E' impossibile!
- Contessa, voi avete amato!

Gemma sorrise sdegnosamente.

- Dovreste sapere, allora, cos'è la gelosia; dovreste sapere ciò che si soffre e come si abbia la sensazione d'impazzire. Orbene, io amo Teresa, sono geloso di lei, sento che perderei la ragione se si fa cesse questo matrimonio. E allora

- E allora?

- Allora! Attenta che non abbia a ricordarmi della gabbia dove c'è la testa di mio padre, delle prigioni dove vivono i miei zii, della tomba dove dorme mia madre.

In quel momento si udì sotto la finestra un grido strano, che sembrava un segnale, e quasi subito echeggiò il suono di un campanello.

- Ecco il principe! - esclamò Gemma.

- Sì, sì, lo so! - mormorò Pasquale con voce cupa. - Ma prima che giunga a questa porta, avete ancora il tempo di dirmi sì. Ve ne supplico, signora, concedetemi ciò che vi chiedo; datemi Teresa, mettetemi al servizio del principe.

- Lasciatemi passare! - disse con tono di comando Gemma, andando verso la porta.

Ma, invece di ubbidire a quell'ordine, Bruno si lanciò verso il chiavistello e lo chiuse.

- Osereste fermarmi? - continuò Gemma, afferrando il cordone di un campanello. - A me, aiuto, aiuto!

- Non chiamate, signora, - disse Bruno, riuscendo ancora a dominarsi, - perché vi ho detto che non volevo farvi alcun male.

Un secondo grido, simile al primo, giunse da sotto la finestra.

- Bene, bene, Alì, tu vigili fedelmente, figlio mio, - disse Bruno. - Sì, so che sta arrivando il principe, sento i suoi passi nel corridoio. Signora, signora, vi rimane ancora un istante, un secondo, e tutte le sventure che prevedo non accadranno

- Aiuto, Rodolfo, aiuto! - gridò Gemma.

- Non avete, dunque, né cuore né anima né pietà! Né per voi né per gli altri! - disse Bruno, affondando le mani nei propri capelli e tenendo d'occhio la porta che veniva scossa violentemente.

- Sono chiusa, - continuò la contessa, rassicurandosi per l'aiuto che le giungeva, - chiusa con un uomo che mi minaccia. A me, Rodolfo, a me! Aiuto!

- Io non minaccio, io prego io prego ancora ma poiché lo volete!

Bruno mandò un ruggito di tigre e si lanciò contro Gemma, deciso a soffocarla con le sue stesse mani perché, come aveva detto, era disarmato. In quel preciso istante, si aprì una porta nascosta in fondo all'alcova, si udì un colpo di pistola, la stanza si riempì di fumo. Gemma svenne. Quando riprese i sensi, era tra le braccia del marito. Con gli occhi terrorizzati guardò in giro per la stanza, e appena fu in grado di articolare qualche parola:

- Che ne è di quell'uomo? - disse.

- Non so. Devo averlo mancato, - rispose il principe, - perché, nel momento in cui passavo sopra il letto, egli è saltato dalla finestra. D'altronde, avendo visto voi svenuta, non mi sono preoccupato di lui, ma di voi. Devo averlo mancato, - andava ripetendo, mentre volgeva gli occhi in giro per la stanza. - Eppure, è strano, non vedo la pallottola nella tappezzeria.

- Fatelo inseguire, - esclamò Gemma, - e nessuna grazia, nessuna pietà per quell'uomo, perché, monsignore, quell'uomo è un bandito che voleva uccidermi.

Le ricerche si protrassero per tutta la notte nella villa, nei giardini e sulla spiaggia, ma invano. Pasquale Bruno era scomparso.

L'indomani si scoprì una traccia di sangue, che cominciava ai piedi della finestra e si perdeva nel mare.

 
Appena rientrarono nel castello con il loro seguito, si fece musica. I giovani lasciarono i tavoli e corsero al posto preparato per il ballo. Com'era usanza, Gaetano si preparava ad aprire le danze con la sposa e già avanzava verso di lei, quando, giungendo per il sentiero degli aloè, apparve sul pianoro uno straniero. Era Pasquale Bruno nel suo abituale costume calabrese. L'unica novità erano due pistole e un pugnale, infilati nella cintura, e la giacca che, gettata sulla spalla destra come la pelliccia di un ussaro, lasciava scoperta la manica insanguinata della camicia. Teresa lo vide per prima: lanciò un grido e, fissandolo con gli occhi terrorizzati, restò impalata e pallida come alla vista di un fantasma. Ognuno si girò verso il nuovo arrivato, e tutti rimasero immobili, in silenzio e muti, prevedendo che stesse per accadere qualcosa di terribile. Pasquale Bruno andò difilato verso Teresa, le si piantò davanti, incrociò le braccia e la fissò intensamente.

- Siete voi, Pasquale? - bisbigliò Teresa.

- Sì, sono io, - rispose Bruno con voce cupa. - Ho saputo a Bauso, dove vi aspettavo, che stavate per maritarvi a Carini, e sono giunto in tempo, spero, per ballare con voi la prima tarantella.

- Questo è un diritto dello sposo, - lo interruppe Gaetano avvicinandosi.

- Questo è un diritto dell'innamorato, - ribatté Bruno. - Andiamo, Teresa, è il meno che possiate fare per me, a quanto mi sembra.

- Teresa è la mia donna, - esclamò Gaetano, allungando le braccia verso di lei.

- Teresa è la mia amante, - disse Pasquale, porgendole la mano.

- Aiuto! - gridò Teresa.

Gaetano afferrò Pasquale per il collo, ma in quel preciso istante lanciò un grido e stramazzò a terra col pugnale di Pasquale immerso nel petto fino al manico. Gli uomini si mossero per avventarsi sull'assassino, il quale tirò con freddezza una pistola fuori della cintura e la caricò. Poi, con la stessa pistola, fece segno ai musicanti di cominciare il motivo della tarantella. Essi ubbidirono meccanicamente: tutti gli altri restarono immobili.

- Andiamo, Teresa! - disse Bruno.

Teresa non era più un essere vivente, ma un automa la cui molla era la paura. Obbedì. E l'orribile danza accanto a un cadavere durò fino all'ultimo movimento della tarantella. Infine, quando i suonatori tacquero, Teresa, quasi fosse stata sostenuta solo dalla musica, cadde svenuta sul corpo di Gaetano.

- Grazie, Teresa, - disse il ballerino, guardandola con occhi duri. - E' tutto quello che volevo da te. E ora, se vi è qualcuno qui che desidera conoscere il mio nome per venirmi a trovare da qualche parte, io mi chiamo Pasquale Bruno.

- Figlio di Antonio Bruno, la cui testa è in una gabbia di ferro al cstello di Bauso? - disse una voce.

- E' proprio così, - rispose Pasquale. - Ma, se desiderate vederla ancora dentro, affrettatevi, perché non vi resterà a lungo, ve lo giuro!

A quelle parole, Pasquale scomparve senza che venisse voglia ad alcuno di seguirlo. Del resto, vuoi per paura, vuoi per pietà, tutti si presero cura di Gaetano e di Teresa.

L'uno era morto, l'altra era pazza.

   
 
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