Alle quattro
del pomeriggio dello stesso giorno, uscimmo
dal porto.
Il tempo era splendido,
l'aria tersa, il mare appena increspato.
Ci trovavamo, più o meno, alla stessa
altezza dalla quale, al nostro ar rivo,
sei settimane prima, avevamo avvistato le
coste della Sicilia. Di diverso c'era che
adesso Stromboli restava alle nostre spalle,
invece di essere alla nostra sinistra. E
di nuovo, che si scorgevano, dalla medesima
distanza ma sotto una luce diversa, le montagne
azzurre della Calabria e le coste bizzarramente
frastagliate della Sicilia, più marcate
rispetto al cono dell'Etna, che dopo la
nostra salita si era ricoperto di un largo
mantello di neve.
A ciò si aggiunga
che avevamo appena visitato il favoloso
arcipelago che Stromboli rischiara come
un faro. E tuttavia, abituati ormai a quei
magnifici orizzonti, gettavamo, adesso,
soltanto uno sguardo distratto su di loro.
Mentre i nostri marinai, che erano nati
sulle terre di Sicilia, passavano addirittura
indifferenti e disinteressati in mezzo agli
scenari lussureggianti di quei mari che
avevano solcato fin dalla loro infanzia
in tutte le direzioni.
Jadin, seduto accanto al
timoniere, tracciava uno schizzo di Strombolicchio
- frammento staccatosi da Stromboli, forse
a causa dello stesso cataclisma che separò
la Sicilia dall'Italia, e che va a spegnersi
nel mare. Mentre io, in piedi, appoggiato
al tetto della cabina, consultavo una carta
geografica alla ricerca di quale strada
prendere per giungere, attraverso le montagne,
da Reggio a Cosenza.
Nel bel mezzo della mia
ricerca, sollevai la testa e mi accorsi
che eravamo arrivati all'altezza del capo
Bianco. Ritornai con gli occhi dalla terra
alla carta e vi riscontrai, lontano appena
due leghe da quel promontorio, il piccolo
borgo di Bauso.
Questo nome ridestò
subito ricordi confusi nella mia mente.
Ricordai che nelle nostre chiacchierate
serali, durante una di quelle belle notti
stellate trascorse, talvolta, per tutta
la loro durata coricati sul ponte, qualcuno
aveva raccontato una storia nella quale
si faceva il nome di quel paese. Ed io non
volevo farmi sfuggire l'occasione di arricchire
la mia raccolta di leggende.
Chiamai il capitano, il
quale fece immediatamente un segno per imporre
silenzio all'equipaggio che, come al solito,
stava cantando in coro. Si tolse il berretto
frigio e venne avanti verso di me con quel
l'aria di buonumore che costituiva la nota
dominante del suo volto.
-Vostra Eccellenza mi ha
chiamato? - mi disse.
- Sì, capitano.
- Sono ai vostri ordini.
- Capitano, non siete stato
voi, un giorno o una notte, non so più
quando, a raccontarmi qualcosa, come una
storia che aveva a che fare col villaggio
di Bauso?
- Una storia di banditi?
- Credo di sì.
- Non sono stato io, Eccellenza.
E' stato Pietro.
E si girò a chiamare
Pietro.
Pietro arrivò difilato,
eseguì un saltello, malgrado lo stato
pietoso in cui le ceneri di Stromboli avevano
ridotto le sue gambe, e restò impalato
davanti a noi, con la mano alla fronte come
un sol dato nell'atto di salutare, e con
una serietà carica di comicità.
- Vostra Eccellenza mi chiama?
- chiese.
Immediatamente, tutto l'equipaggio,
credendo che si trattasse di uno spettacolo
di danza coreografica, si avvicinò.
Venni a trovarmi così al centro di
un semicerchio che si apriva fino a occupare
la speronara per tutta la sua larghezza.
Jadin, dal canto suo, aveva
ultimato il suo schizzo. Ficcò l'album
in una delle undici tasche della sua giacca
di panno. Batté l'acciarino e accese
la pipa. Salì sull'impavesata, tenendosi
a una corda con tutte e due le mani per
essere sicuro, per quanto possibile, di
non cadere in mare. E cominciò a
seguire con gli occhi gli sbuffi che mandava
fuori dalla bocca, con l'attenzione seria
di chi ha interesse ad acquisire informazioni
certe sulla direzione del vento.
Intanto Filippo, il suonatore
della compagnia, occupato, al mo mento,
sull'interponte a pelare patate, sporse
la testa da un bocca porto e interrompendo,
per un momento, le sue occupazioni culina
rie, si mise a fischiare il motivo di una
tarantella.
- Non è il momento
di ballare - disse il capitano. - Sua Signoria
ricorda che tu gli hai parlato di Bauso.
- Oh! - riprese Pietro.
- Sì, sì, a proposito di Pasquale
Bruno, non è vero? Un bandito coraggioso.
Me lo ricordo bene. L'ho visto quando avevo
l'età del figlioletto del capitano.
Quando temeva di non poter dormire tranquillo
a casa sua, veniva a chiedere a mio pa dre
ospitalità per una notte. Sapeva
bene che non sarebbero stati i pescatori
a tradirlo. Così, nel momento in
cui ci disponevamo a partire per la pesca,
lo vedevamo scendere dalla montagna. Ci
fa ceva un segno, lo aspettavamo. Si coricava
sul fondo della barca, con la carabina accanto
e le pistole alla cintura. E dormiva tranquillo
come il re nel suo castello, nonostante
la sua testa valesse 8.000 piastre.
- Burlone! - esclamò
Jadin, lasciando cadere l'accusa, distesa
in tutta la sua lunghezza e di peso, tra
due sbuffi di fumo.
- Come! Che cosa dice il
vostro amico? Che non è vero? Chie
dete al capitano Arena.
- E' vero - disse il capitano.
- E non potreste raccontarci
la sua storia?
- Oh, la sua storia! E'
lunga.
- Tanto meglio - risposi.
- Il fatto è che
non la conosco tanto bene - disse Pietro,
grat tandosi l'orecchio. - E poi, vedete,
sapendo che tutto quello che vi direi sarebbe,
un giorno, stampato nei libri, non vorrei
raccontarvi delle frottole. Nunzio, Nunzio!
Alla chiamata di Pietro,
ci girammo verso il punto dove sape vamo
che doveva trovarsi colui che veniva chiamato.
Scorgemmo, infatti, la sua testa mostrarsi
dall'altro lato della cabina.
- Nunzio - gli disse, -
voi che sapete tutto, conoscete la storia
di Pasquale Bruno?
- Quanto a colui che sa
tutto - disse il timoniere con quell'espres
sione di serietà che non lo abbandonava
mai, - non vi è che Dio, il quale,
senza amor proprio, possa vantarsi di saperla
così lunga senza averla imparata.
Comunque, per quanto riguarda Pasquale Bruno,
non ne so molto. So soltanto che è
nato a Calvaruso e che è morto a
Palermo.
- In tal caso, timoniere,
ne so ancor più di voi - disse Pietro.
- E' possibile - disse Nunzio,
scomparendo a poco a poco dietro la cabina.
- Ma non ci sarebbe un modo
- continuai, insistendo, - di procu rarsi
informazioni esatte su quest'uomo? Voi,
capitano, conoscete qualcuno che faccia
al caso nostro?
- No, in fede mia! Tutto
quello che so, è che era incantato.
- Come, incantato?
- Sì, sì.
Aveva fatto, per un determinato tempo, un
patto con il diavolo, perciò non
poteva essere ferito né da pallottole
né da pu gnale.
- Buffone di un capitano!
- disse Jadin, sputando in mare.
- Come? - soggiunsi, obiettando
alla questione con la stessa serietà
con cui era posta, - credete che si possa
fare un patto?
- Da parte mia non ne ho
fatto mai - rispose il capitano, - ma ecco
là Pietro che ne ha fatto uno.
- Come, Pietro! Avete venduto
la vostra anima?
- Oh, per niente! Il diavolo
ne aveva proprio voglia - disse Pietro,
- ma il figlio di mia madre è scaltro
quanto lui. Figuratevi, avevo diciotto anni,
ero ambizioso come tutti. Volevo pescare
più pesce di quanto ne pescassero
i miei compagni. Sono stato pescatore prima
di essere marinaio. Perciò sono andato
a trovare una vecchia strega, una strozzina
di Taormina, la quale mi disse che le avrei
do vuto dare metà del pesce che avrei
pescato, in cambio delle esche che mi avrebbe
preparato ogni sera. Fu stretto il patto.
Durò un anno. Durante quell'anno
ho preso tanto di quel pesce da poter riempire
quattro volte questo bastimento che voi
vedete.
Alla fine dell'anno le dissi:
- Va sempre, ve', il mare. - Sì -
mi ri spose, - ma quest'anno voglio farti
diventare ricco. L'anno scorso hai pescato
solo pesce, quest'anno voglio farti pescare
il corallo. - No, comare - le risposi, -
un mio compagno è stato tagliato
in due da un pescecane, ed io non sento
di avere questa vocazione. - Tu mi firmerai
una carta - disse la vecchia, - e io ti
darò un unguento con il quale ti
spalmerai. E i pescecani non potranno nulla
su di te. - Bene, bene - le dissi, - conosco
il vostro intruglio. Adesso basta, non ne
parliamo più.
Presi il mio berretto, corsi
dal curato, gli feci cantare una messa,
e tutto finì. L'indomani, due giorni
dopo, sono ritornato alla pesca: buonasera,
manco una triglia. Così, appena ho
visto che non funzio nava, mi sono fatto
marinaio. Ecco, è da quindici anni
che lo sono. E, come vedete, mi è
giovato molto dal momento che ho l'onore
di es sere al servizio di Vostra Signoria.
- Vile adulatore! - disse
Jadin, dandogli una pedata d'amicizia sul
didietro.
- Ebbene, capitano! Per
tornare a Pasquale Bruno, pare che sia stato
meno scrupoloso di Pietro.
- Sì - rispose seriamente
il capitano. - Prova ne sia che quando lo
hanno impiccato a Palermo, il diavolo ha
gettato un così alto grido uscendo
dal suo corpo, che mio padre, che assisteva
all'esecuzione nella sua qualità
di capitano della milizia, è scappato
alla testa della sua compagnia, e nella
confusione qualcuno gli ha rubato la giberna
e le fibbie d'argento delle scarpe. Questo,
vedete, ve lo posso garantire, perché
me lo ha raccontato cento volte.
- Sentite - disse Pietro,
che durante la tiritera del capitano sem
brava averci attentamente pensato, - volete
delle informazioni si cure e certe?
- Ma senza dubbio. E' da
un'ora che le chiedo.
- Ebbene, aspettate. Nunzio,
quando saremo a Messina?
- Questa sera, due ore dopo
l'Ave Maria.
- Esatto, vedete, verso
le nove. Bene. Dunque, saremo a Messina
questa sera verso le nove. E' vangelo: l'ha
detto il vecchio. Questa notte non andrete
a dormire a terra. Sarà troppo tardi
perché il capi tano si faccia vistare
la patente. Ma domani, all'alba, potrete
scen dere a terra, prendere una carrozza
e in tre ore raggiungere Bauso che si trova
a otto leghe da Messina.
- Perdio! - feci, interrompendolo,
- questa vostra idea è meravi gliosa,
ma credo di averne una ancora migliore.
- E quale?
-Non andremo a Messina,
andremo direttamente al capo Bianco. C'è
pressappoco la stessa distanza, e il vento
è favorevole. Ebbene, qual è
il problema?
Gli rivolsi questa domanda
perché mi accorsi che la mia pro
posta aveva provocato nell'equipaggio una
certa reazione. Pietro e i suoi compagni,
un istante prima così allegri, si
stavano guardando l'un l'altro con un certo
timore. Filippo era rientrato nell'interponte
come se il diavolo lo avesse tirato per
i piedi. Il capitano era divenuto pallido
come un morto.
- Andremo al capo Bianco
se Vostra Eccellenza lo vuole - disse quest'ultimo
con voce alterata. - Siamo qui per obbedire
ai vostri or dini. Ma se per voi non fa
differenza, anziché andare al capo
Bianco, potremmo andare a Messina, come
eravamo rimasti d'accordo prima. Tutti ve
ne saremmo quanto mai riconoscenti. Non
è così anche per gli altri?
Tutti i marinai, restando
in silenzio, fecero un segno di approva
zione con la testa.
- Potrei almeno sapere il
motivo del vostro rifiuto? - chiesi.
- Ve lo dirà Pietro:
lui c'era.
- Ebbene, ragazzi miei,
andiamo a Messina!
Il capitano mi prese la
mano e me la baciò. Pietro trasse
un so spiro di sollievo, come se gli avessero
levato Stromboli da sopra il petto. E tutti
gli altri sembravano così contenti
come se avessi regalato a ciascuno di loro
dieci piastre. Ruppero subito le fila e
tor narono ai loro posti. Tranne Pietro,
che si sedette su un barile.
- In questo caso - disse
Jadin, saltando dall'impavesata sul ponte,
- non c'è più alcun motivo
per non fare friggere le patate.
E scese giù in cucina,
avendo poca dimestichezza col dialetto siciliano;
mentre io, che non volevo perdere una sola
parola dell'interessante racconto, andai
a sedermi vicino a Pietro.
- Vedete - mi disse Pietro,
- da allora sono trascorsi undici anni.
Era il 1824. Il capitano Arena, non questo,
suo zio, si era appena sposato. Era un bel
giovane di ventidue anni, che aveva un piccolo
bastimento con il quale praticava il commercio
lungo tutte le coste. Aveva sposato una
ragazza del villaggio di Pace, che voi conoscete
bene. E' il paese che si trova tra Messina
e il Faro, dal quale prove niamo quasi tutti
noi.
Avevamo mangiato e bevuto
smodatamente per tre giorni, e il quarto,
che era di domenica, eravamo andati al lago
di Pantana. C'era la processione di San
Nicola, processione alla quale, quest'anno,
avete assistito anche voi. Era un giorno
di grande festa. Come sapete, si porta in
giro la statua del santo; si sparano i giuochi
d'artificio e colpi di fucile; si balla.
Antonio dava il braccio
alla sua donna, quando si sente toccare
e chiamare per nome. Si girò. C'era
una donna velata da un velo di taffettà
nero, tale e quale quello che avete visto
portare alle donne siciliane. Per uscire
in strada, però, non per andare alle
feste. Credendo di essersi sbagliato, continua
per la sua strada. Bene. Cinque minuti dopo,
la cosa si ripete. Viene toccato e viene
fatto nuovamente il suo nome. Adesso era
sicuro del fatto suo, ma essendo con la
sua donna, fa ancora finta di niente. Infine,
il fatto si ripropone per la terza volta.
Oh, questa volta perde la pazienza. - Tieni,
Pietro - mi disse, - resta accanto alla
mia donna. Vedo laggiù qualcuno a
cui è necessario ch'io parli.
Non me lo faccio dire due
volte. Prendo la manina della sposa, la
passo sotto il mio braccio, ed eccomi fiero
come un pavone di portare a spasso la donna
del mio capitano. Quanto a lui, si era già
dileguato.
Camminando, incontrammo
un suonatore ambulante che suonava una tarantella
con la chitarra. Voi lo sapete, quando sento
questo diavolo di motivo, non posso più
trattenermi, devo saltare per forza. Invito
la donna del capitano a ballare la piccola
contraddanza. Ci mettiamo uno di fronte
all'altra, e via. Nel giro di cinque minuti,
si fece cerchio attorno a noi.
A un tratto, in mezzo a
quelli che ci guardano, scorgo il capitano
Antonio, ma così pallido, così
pallido, che credetti, sul mio onore, che
si trattasse della sua ombra. Perdo il tempo
e cado a piombo con i due talloni sui piedi
del timoniere. - Ah! - gli dissi, - vi chiedo
scusa, Nunzio, mi è preso un crampo.
Ballate un istante al posto mio. E' molto
compiacente, come vedete, il timoniere,
e così resistente al do lore, che
è un bue per la sua tenacia. Si mette
a ballare su un piede, l'altro glielo avevo
pestato. Nel frattempo, faccio un segnale
al capi tano. Si avvicina.
- Ebbene! - gli dico, -
che è successo?
- L'ho rivista.
- Chi?
- Giulia.
- La bella strega?
- Sì.
- Che vi ha detto?
- Niente. Stupidaggini.
- Vi ama sempre?
- Non lo so. Ma ho fatto
male a seguirla. Dov'è la mia donna?
- Non la vedete? Balla la
tarantella con Nunzio.
- Ah! sì, è
vero. Credi che sia vero ciò che
si dice di lei?
- Della vostra donna?
- No, di Giulia. Credi che
sia una strega?
- Perbacco! Si dice che
a Palma siano tutte streghe.
Il capitano si passò
la mano sulla fronte. Grondava sudore a
grosse gocce. In quel mentre, la tarantella
finì. La sua donna venne a prenderlo
di nuovo a braccetto. Antonio le propose
di rincasare. Lei non chiedeva di meglio.
A una donna appena sposata, voi lo capite,
non dispiace di stare sola con il suo uomo.
Il capitano mi fece un se gno che significava:
non una parola! Gli risposi con un altro
segno che voleva dire: basta così.
E ci voltammo le spalle, come se non ci
fossimo mai visti.
- Ma che cos'era Giulia?
- lo interruppi.
- Ah! ecco. Dovete sapere
che un anno prima, alla festa di Palma,
alla quale il capitano Arena Antonio, lo
zio del nostro...
- Lo capisco bene.
- Era andato, nostro malgrado,
aveva preso le difese di una gio vane, insultata
da un marinaio calabrese. Dalle parole si
passò ai fatti, e il capitano si
buscò una coltellata. Un brutto colpo:
tre pollici di lama. Fortunatamente però
dal lato destro. Se fosse stato dalla parte
sinistra, gli avrebbe trafitto il cuore.
Venne trasportato a casa
di una vecchia donna, e si fece venire il
medico, un bravo medico. Oh! oh! se fosse
in una grande città, farebbe la sua
fortuna. Ma a Palma non vi sono molti malati,
perciò è costretto a fare
un po' di tutto. Ferra i cavalli, dà
da bere...
- Perfettamente. Ne sono
al corrente.
- Vide il capitano, lo visitò
attentamente, ficcò il dito nella
ferita. - Non vi è niente da fare
- disse. - Se tutti i medici di Catanzaro
e di Cosenza fossero qui, a loro non farebbe
né caldo né freddo. E' un
uomo spacciato. Girategli la faccia dalla
parte del muro e fatelo mo rire in pace.
- Fu la gente che si trovava
là a ripetere, poi, le sue testuali
pa role al capitano. Che non sentiva niente,
era privo di conoscenza e soffriva come
un dannato. Fecero come aveva detto lui.
Fu acceso un cero accanto al suo letto,
e la vecchia si mise a dire il rosario in
un angolo. Lo si credeva morto.
Verso mezzanotte, il capitano,
che aveva sempre gli occhi chiusi, avverte
qualche cosa, come un miglioramento. Respirava,
andiamo! Era come se qualcuno (me lo ha
raccontato venti volte, povero capi tano!),
era come se qualcuno gli avesse tolto la
cattedrale di Messina da sopra il petto.
Avvertiva qualcosa che gli
faceva bene e ancora bene, tanto che aprì
gli occhi e gli sembrò di sognare.
La vecchia si era addormentata in un angolo
borbottando le sue preghiere. E al chiarore
del cero che vegliava, vide una ragazza
piegata su di lui. Aveva la bocca premuta
contro il suo petto e succhiava la sua ferita.
Dalla finestra aperta si scorgeva un bel
cielo stellato che lo indusse a credere
che si trattasse di un angelo disceso dall'alto.
Perciò non aprì bocca e la
lasciò fare. Temeva che, parlando,
la giovane potesse sparire.
Dopo qualche istante, lei
staccò la bocca dalla ferita, prese
da un piccolo mortaio un pugno di erbe pestate
e ne spremette il succo sulla ferita. Poi
piegò il proprio fazzoletto in quattro
e lo pose sulla ferita a mo' di apparecchio
di contenzione.
Infine, vedendo che non
si muoveva, avvicinò la faccia alla
sua come per sentire se respirava. Fu allora
che il capitano riconobbe la ragazza per
la quale si era battuto. Avrebbe voluto
parlare, ma lei gli mise la mano sulla bocca
e, portando il dito alle labbra, gli fece
capire che doveva stare zitto; poi, ritirandosi
senza far rumore, come se scivolasse sulla
terra invece di camminare, aprì la
porta e scomparve.
Il capitano (oh! me lo ha
detto lui, e non era un bugiardo) cre dette
che fosse un sogno. Mise la mano sulla ferita
per vedere se fosse vera, e sentì
il fazzoletto umido. Gli parve allora che
premendolo contro il petto provasse sollievo.
Ed era vero, a quanto sembrava. Infatti
si addormentò di un sonno così
tranquillo che si svegliò l'indomani
nella stessa posizione e con la mano sempre
allo stesso posto.
Appena aprì gli occhi
entrò il medico.
- Ebbene, comare - disse,
- è morto il nostro malato?
- Beh! non lo so - disse
la vecchia, - so solo che non ha sofferto.
Il capitano fece un movimento
nel letto.
- Ah! eccolo che si muove
- disse il medico. - Ebbene, ne rispondo
io. Questo pezzo d'uomo ha la vita dura.
A quelle parole, si avvicinò
al letto. Il ferito si girò dalla
sua parte.
- Diavolo! - disse il medico,
- siamo arzilli, mi pare.
- Sì, dottore - disse
il capitano, - non c'è male. E se
non fosse che non so che cosa mi sia capitato
alle gambe, potrei camminare.
- Ah! - fece il dottore,
- è la febbre che continua... Vediamo
un po'.
Il capitano gli porse il
braccio, il dottore gli tastò il
polso.
- Niente febbre - disse.
- Che vuol dire? Vediamo la ferita.
Il capitano ritrasse la
mano che aveva tenuto costantemente sul
petto, il medico sollevò la pezza:
la ferita era ancora aperta, ma nelle migliori
condizioni possibili. Capì, allora,
che si era sbagliato e che il capitano se
ne sarebbe ricordato. Mandò subito
a cercare certi in trugli, preparò
un impiastro e glielo applicò sul
collo, dicendogli di stare tranquillo che
tutto sarebbe andato per il meglio.
Due ore dopo il capitano
aveva una febbre da cavallo. Soffriva tanto
che un altro si sarebbe messo a gridare.
Ma siccome era nato coraggioso, si mordeva
i pugni e diceva: E' per il tuo bene, Antonio,
bisogna soffrire per guarire, mio caro amico.
Così impari a non immi schiarti nelle
cose che non ti riguardano. Poi diceva le
preghiere per non bestemmiare. Il suo stato
di salute, come capita sempre in questi
casi, andò peggiorando fino a notte.
Infine, stremato dalla stanchezza, si addormentò.
A mezzanotte, più
o meno (capite bene che non si era dato
pen siero di dare la corda al suo orologio),
avvertì un dolore così vivo
che si svegliò. Era ritornata la
giovane dell'altra notte e gli stava to
gliendo la medicazione del dottore. Gli
fece segno, come la notte pre cedente, di
non parlare. Tirò dal petto una piccola
bottiglietta e lasciò cadere sulla
ferita alcune gocce di un liquido verdastro,
che gli spense il fuoco che aveva nel petto.
Poi, come la notte prima, la giovane prese
un po' di erbe pestate, ma questa volta
gliele mise di rettamente sulla ferita,
gliele fermò con una benda, fece
di nuovo segno a lui che tendeva le braccia
verso di lei, di non muoversi, e scomparve
come la prima volta.
Il capitano si sentì
rinfrescare come se lo avessero messo in
un bagno di latte. Non più dolore,
non più febbre, niente, se non la
male detta debolezza. Infine si addormentò.
Non si era ancora svegliato,
l'indomani, che venne a fargli visita il
dottore. Al rumore dei suoi passi, aprì
gli occhi.
- Di bene in meglio - disse
il medico. - Buona cera; tirate fuori la
lingua: buona lingua; datemi la mano: polso
buono; vediamo la fe rita.
- Ah! - disse il capitano,
togliendo la compressa di erbe e la benda
che la tratteneva, - la medicazione si è
rovinata durante la notte.
- Non importa, vediamo lo
stesso.
La ferita andava a meraviglia,
era pressoché chiusa. Il dottore
consigliò un secondo impiastro, simile
al primo, e incaricò la vecchia di
applicarlo sul fianco del malato.
Ma appena egli girò
le spalle, il capitano, che ricordava quello
che aveva sofferto il giorno avanti, gettò
via dalla finestra quel diavolo d'impiastro,
rimise sulla ferita le erbe, per quanto
secche fos sero, e sentendosi bene, chiese
di bere un brodo. La vecchia gli disse che
era vietato. Non poteva ribattere nulla.
Dovette farne a meno, e lasciò correre
ogni cosa. Si sentiva meglio.
A sera, disse alla vecchia
che poteva andare a coricarsi perché
non aveva più bisogno di nessuno.
Lasciasse la lampada accesa, se avesse avuto
bisogno di lei, l'avrebbe chiamata. La vecchia,
che non domandava niente di meglio, lo accontentò
e lo lasciò solo.
Questa volta, invece di
addormentarsi, restò con gli occhi
aperti, fissi alla porta, che a mezzanotte
si aprì come di consueto. La ragazza
avanzò verso di lui.
- Non dormite? - chiese
al capitano.
- No, vi aspettavo.
- E come state?
- Oh! bene, per tutto il
giorno e ancora meglio adesso.
- La vostra ferita?
- Guardate: si è
chiusa.
- Sì.
- Grazie a voi. Siete stata
voi a salvarmi.
- Curarvi era proprio il
meno che potessi fare per voi. E' per me
che siete stato ferito. Ma grazie a Dio,
siete guarito.
- Guarito così bene,
- rispose il capitano, - che non ho perduto
di vista il brodo della vecchia. Ve lo confesso:
muoio di fame.
La ragazza sorrise e tirò
fuori la bottiglietta della notte avanti,
che questa volta conteneva un liquido rosso
come il vino. La svuotò in una piccola
tazza che trovò sul caminetto, e
la porse al capitano.
Non era la bevanda da lui
richiesta, tuttavia la prese e l'assaggiò
contro voglia. Ma sentendo che era dolce
come il miele, la bevve d'un sorso. Per
quanto fosse poca cosa, gli calmò
gli stimoli dello stomaco. Eccezionale:
a mala pena l'equivalente di un bicchierino
di rosolio! E non era tutto. Ben presto
avvertì un calore piacevole che gli
corse per tutto il corpo. Credette di essere
in paradiso. Povero capitano! Guardava la
ragazza, le parlava senza sapere cosa dicesse.
Infine, sentendo che i suoi occhi si chiudevano,
le prese la mano e si addormentò.
- Non era lo stesso liquore
- chiesi, - che, in una circostanza si mile,
il locandiere Matteo diede a Gaetano Sferra?
- Proprio quello. Ha vissuto
in quei paesi, il vecchio, e vi ha conosciuto
la povera figliola che gli ha dato la sua
ricetta. E' da credere, inoltre, che fosse
una bevanda magica.
Il capitano, infatti, fece
dei sogni d'oro. Gli parve di essere alla
pesca del corallo dalle parti di Pantelleria.
Pescava rami stupendi di corallo e ne aveva
pieno il bastimento, tanto che non sapeva
più dove metterlo. Dovette decidersi
ad andare a venderlo. Partì per Napoli.
Un piccolo ventaglio di ragazza lo spingeva
di dietro come con la mano. Quando arrivò
nel porto, il cordame era di seta, le vele
di taffettà rosa, e il suo bastimento
di legno di mogano. Il re e la regina, che
erano stati avvisati del suo arrivo, l'aspettavano
e gli facevano segno con la mano. Infine
scese a terra, venne portato al palazzo
dove gli fecero bere del lacrima-christi
in bicchieri sfaccettati, e mangiare i maccheroni
in zuppiere d'argento. Si trattava di un
sogno alla fin fine. Comprarono il suo corallo
a un prezzo superiore a quello per il quale
intendeva venderlo, e ritornò ricco,
ricchissimo. Tutta la notte, non c'è
che dire, fece sogni così.
- Aveva preso l'oppio? -
lo interruppi.
- E' possibile. Tanto che
l'indomani, quando si svegliò, si
credeva di essere il gran Turco. Ma appena
entrò la vecchia, si rese conto che
si stava sbagliando. Si ricordò di
essere semplicemente il capitano Antonio
Arena, che era stato ferito, e che aveva
scambiato per vino del Vesuvio e maccheroni
nient'altro che quattro gocce di liquore
rosso che una ragazza gli aveva versato
in una tazza che era ancora sulla cassa,
vicino al suo letto. Ma non aprì
bocca sul l'accaduto. Chiese solo di alzarsi.
Gli fu messa una poltrona accanto alla finestra,
prese un bastone, e in fede mia, alla meno
peggio riuscì a camminare. Tre giorni
dopo aver ricevuto una simile coltellata.
Ne aveva, però, di coraggio!
Alla fine, quando entrò
il medico, aveva tutta l'aria di un presi
dente. Stentava a crederci, il povero caro
uomo. Era la più bella cura che aveva
prescritto in vita sua. Si sedette accanto
al malato.
- Ebbene, capitano - gli
disse, - a quanto pare andiamo di bene in
meglio.
- Lo vedete, dottore. A
perfezione.
- Oh! Non è il caso
di tastarvi il polso, né di guardarvi
la lingua. Dovrete avere solo un po' di
pazienza, e le forze ritorneranno. Ma quando
saranno tornate, se posso darvi un consiglio,
non battetevi più per tutte le streghe
che incontrerete, in quanto, vedete, ce
n'è più di una in Calabria.
- Che volete dire?
- Dico che colei per la
quale avete ricevuto la coltellata, da cui
la mia scienza vi ha appena guarito, non
valeva la vita che stavate per rimetterci.
- Come?
- Non la conoscevate?
- No.
- Ebbene, è Giulia.
- Giulia! E' il suo nome?
E dopo?
- Dunque, dopo... è
il nome di una strega. Ecco tutto.
- Lei! Lei è strega!
Il capitano impallidì.
Poi, non essendone ancora convinto: - Strega?
- riprese. - Dottore, ne siete proprio sicuro?
- Sicuro come della mia
esistenza. Innanzitutto, è una giovane
senza padre né madre. Poi, vedete,
è cresciuta con un pastore, uno iettatore,
un avvelenatore anche.
- Ma questa non è
una ragione per cui quella povera figliola...
- Quella povera figliola
è una strega, vi dico. L'ho incontrata
io nei campi, di notte, nel tempo del plenilunio,
mentre cercava le erbe e le piante con le
quali opera i suoi malefici. Quando capita
una disgrazia sulla montagna o sulla spiaggia,
e un marinaio annega o un uomo riceve una
coltellata, lei, di notte, li va a trovare,
fa loro riacquistare i sensi con parole
magiche e dà loro beveraggi compo
sti con piante sconosciute. E quando i malati
sono prossimi alla guarigione, fa sottoscrivere
loro un patto. Ebbene, che avete, capitano,
che diventate bianco come un panno? Un sudore!
Oh! oh! è la debolezza. Vedete, vi
siete alzato troppo presto. Però
andrà bene domani. Verrò a
vedervi.
- Dottore - disse il capitano,
- vorrei regolare il mio conto con voi.
- Bah! Non c'è alcuna
fretta - rispose il medico.
- Ma certo, ma certo.
- Dunque, sapete da dove
vi ho tirato fuori. Mi darete ciò
che vor rete, ciò che credete ch'io
meriti. Non faccio mai questione di prezzo,
io.
- Un ducato per visita,
va bene, dottore?
- Vada per un ducato per
visita.
Il capitano gli diede tre
ducati, e il dottore uscì.
Un quarto d'ora dopo arrivammo
noi con tre uomini dell'equi paggio del
capitano. Nunzio, il mio povero fratello
e io eravamo ve nuti a conoscenza dell'incidente
quello stesso giorno ed eravamo sal tati
sulla nostra barca. Oh! una piccola barca
coi fiocchi, suvvia, che filava come una
rondine. Avevamo compiuto la traversata
da Pace a Palma, distanti tra loro nove
grandi leghe, ve lo devo dire, in tre ore
e mezza, non un minuto in più. Una
buona velocità, ve'!
- Buonissima. Mi sembra,
però, che vi stiate discostando dal
vo stro racconto, mio caro Pietro.
- E' vero. Ah! - disse il
capitano vedendoci, - siate i benvenuti.
Povero capitano! Gli baciavamo
le mani come si fa col pane. Vedete, ci
avevano detto che era morto, e invece lo
ritrovavamo non soltanto vivo, ma anche
in piedi e con una buona cera. A dire il
vero, non stavamo più in noi dalla
gioia.
- Non è questo, ragazzi
miei, tutto quello che ho da dirvi. Siete
venuti con la barca?
- Sì.
- Bene. Bisogna tenerla
pronta per partire tutti insieme questa
notte.
- Questa notte?
- Zitto!
- Capitano, non ci pensate,
ferito come siete.
- E' necessario, vi dico.
Non ci sono ragioni né discorsi né
osser vazioni che tengano. Quando vi dico
che bisogna partire, vuol dire che bisogna
partire.
- E se il vento fosse sfavorevole?
- Andremo a remi, anche
se dovessi mettermi a remare pure io.
- Voi, capitano? Andiamo,
allora. Vi farà bene svagarvi, dal
mo mento che state bene e vi è bonaccia.
Ma poiché siete ferito, farà
bello.
- Perciò, intesi.
- Intesi.
- Fate portare del vino,
e del migliore. Pago io.
Abbiamo fatto portare vinello
della Calabria e castagne. Vedete, quando
vi trasferirete in Calabria, non ve ne dimenticate.
Non c'è nient'altro di buono in quel
paese, se non il moscato e le castagne.
In quanto agli uomini, sono veri e propri
briganti che hanno tradito Gioacchino, e
poi l'hanno fucilato.
- Ma, a quanto pare, ce
l'avete proprio con i Calabresi.
- Oh! tra loro e noi c'è
una guerra all'ultimo sangue. Ve ne rac
conterò di belle sul loro conto,
state tranquillo. Ma per il momento, torniamo
al capitano. Egli bevve un piccolo bicchiere
pieno di vino, che gli fece un grande bene.
Si sentì ritornare le forze, e fu
una benedizione. Infine, alle venti, lo
lasciammo per andare a preparare il necessario.
Alle ventitré eravamo di ritorno.
Aveva perso la pa zienza, il capitano. Era
già alzato e pronto a partire.
- Ah! - disse, - temevo
che non foste arrivati prima di mezzanotte.
Filiamo.
- Senza dire niente a nessuno?
- Il medico l'ho già
pagato, ed ecco due piastre per la vecchia.
- Fate le cose in grande,
capitano.
- Purché mi restino,
al mio arrivo a Pace, due carlini per fare
dire una messa. Ecco tutto quello di cui
ho bisogno. In viaggio!
- Oh! con il vostro permesso,
capitano, voi non dovete cammi nare, vi
porteremo noi.
- Come volete. Ma andiamo
via.
Nunzio lo prese sulle spalle
come si fa con un bambino. Eravamo a non
più di cento passi dal posto dove
avevamo ormeggiato la barca, e in dieci
minuti ci arrivammo.
Nel momento in cui deponevamo
il capitano nella barca, scor gemmo una
figura bianca sollevarsi lentamente da uno
scoglio della riva. Ci guardò un
istante, Poi ci sembrò che scivolasse
lungo la grande roccia. E si mosse verso
di noi. Spingemmo il barcone nell'acqua,
dandole il tempo di avvicinarsi. Non era
a più di quindici passi da noi, che
il capitano la scorse.
- La barca è in mare?
- chiese il capitano, alzandosi, e con una
voce così forte come se fosse pieno
di salute.
- Sì, capitano -
rispondemmo in coro.
- Suvvia! ai remi, amici
miei, e al largo, velocemente al largo!
La donna lanciò un
grido. Ci girammo.
- Che cos'è questa
donna? - chiese Nunzio.
- Una strega, - rispose
il capitano, facendo il segno della croce.
Il battello fece un balzo
sul mare e corse via come se avesse le ali.
La povera creatura, che ci lasciavamo dietro,
la vedemmo accasciarsi sulla sabbia, dove
rimase stesa come morta.
Il capitano era caduto svenuto
sul fondo della barca. |