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« De la plage de Bauso, la vue est délicieuse. De ces côtes, le cap Blanc s'avance plat et allongé dans la mer; de l'autre côté les monts Pelore se brisent au-dessus des flots à pic comme une falaise. Au fond, se découpent Vulcano, Lipari et Liscabianca, au delà de laquelle s'élève et fume Stromboli »

A. Dumas - Le capitaine Arena

Premessa
 
Capitolo primo
La strega di Palma
 
Stampato nel 1997 da Armenio Editore - Brolo (ME)
 

Quando Dumas trovava un filone interessante, si può esser certi che non lo abbandonava tanto facilmente, se non dopo averlo esplorato, e utilizzato, in tutte le direzioni possibili e in ogni sua parte. Così avvenne per la storia del brigante Pasquale Bruno, nato a Bauso (oggi Villafranca Tirrena, in provincia di Messina) e vissuto in Sicilia tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo.
Di tale storia esistono due diverse versioni: una romanzata, confluita nel romanzo storico intitolato
«Pascal Bruno», pubblicato a Parigi nel 1838 (e da noi tradotto e pubblicato 150 anni dopo, nel 1988); e un'altra inserita nel racconto del viaggio compiuto da Dumas in Sicilia dal 23 agosto del 1835 al 18 ottobre dello stesso anno, e pubblicato nel 1842 col titolo «Le capitaine Arena» (che si può leggere in questa nostra traduzione).

Non inganni, comunque, la distanza di tempo che intercorre tra le due opere. A nostro avviso, il racconto delle imprese di Pasquale Bruno che, nel Capitano Arena, l'illustre viaggiatore dice di aver ascoltato dalla viva voce di Sua Eccellenza don Cesare Alletto, notaio di Calvaruso, e in Pasquale Bruno da quella del musicista catanese Vincenzo Bellini, è precedente a quello del romanzo, del quale, con ogni probabilità, costituì il canovaccio.
E di un canovaccio ha tutte le caratteristiche il racconto inserito nel Capitano Arena, sia per l'impostazione schematica, che per il crudo realismo che lo rendono, di gran lunga, più vero e più oggettivo rispetto al romanzo.
Da ciò scaturiscono pure le diversità notevoli e le frequenti contraddizioni tra le due versioni. Vediamone alcune.
- Nel romanzo Dumas dice che il padre di Pasquale, Giuseppe Bruno, ferì semplicemente il conte di Castel Nuovo che sopravvisse; nel Capitano Arena afferma che la pugnalata, inferta dal marito offeso al conte, fu per quest'ultimo mortale
(«il lui allongea, au-dessous de la sixième côte gauche, un coup de poignard dont il mourut deux heures après»);
- nel romanzo non c'è alcuna traccia del giacobinismo di Pasquale che, invece, trova spazio e rilievo nel Capitano Arena, dove il brigante manifesta, nei riguardi dei Francesi, una simpatia che non trova alcun riscontro nella storia e nel sentimento popolare dei Siciliani del tempo:«
quant à ce qui était de faire la guerre aux Français, il leur porterait bien plutôt secours, attendu qu'ils venaient pour rendre la liberté à la Sicile comme ils l'avaient rendue à Naples»;
- non c'è nel Capitano Arena alcun accenno all'odio implacabile della contessa Gemma, figlia del conte di Castel Nuovo, nei riguardi del figlio dell'assassino del proprio padre. La contessa, che grazie ai favori di cui gode alla corte del re Ferdinando IV riesce a fare spostare l'esecuzione da Messina a Palermo, assiste all'impiccagione di Pasquale con la stessa curiosità e quasi indifferenza delle altre «
belles femmes et des plus riches seigneurs de Palerme»;
- nel romanzo Pasquale, alla vigilia dell'esecuzione della condanna a morte, rifiuta di confessarsi; qui non solo si confessa, ma quando apprende che, a causa del tentato suicidio, non potrà ottenere dal prete l'ssoluzione dei peccati, trema di paura come un bambino: «
Bruno frémit à l'idée de mourir sans absolution. Cet homme, auquel aucune puissance humaine n'eût pu faire baisser les yeux, tremblait comme un enfant devant la damnation éternelle»;
- nel romanzo Pasquale viene condotto al patibolo sopra una carretta trainata dai muli; qui «
Pascal Bruno était lié sur un âne marchant à reculon».
E si potrebbe andare avanti così per un pezzo. Ma a noi interessa porre brevemente l'accento sulla bellezza del racconto della vita di Pasquale Bruno contenuto nel Capitano Arena, così vivo, succoso, stringato, essenziale, col suo ritmo veloce e serrato, che nulla concede alle effusioni romantiche e al sentimentalismo melodrammatico di cui si trova abbondante traccia nel romanzo, e che sembra, nella sua nuda e spoglia semplicità, precorrere i tempi e costituire quasi un'anticipazione del realismo ottocentesco.

Un accenno va fatto, infine, al fascino che ha esercitato sullo scrittore francese il paesaggio siciliano e quello di Bauso in particolare. La precisione dei riferimenti topografici e temporali, la descrizione particolareggiata dei luoghi suggestivi e pittoreschi
(«les touffes énormes de figuiers et de grenadiers semés tout le long du chemin, et du milieu desquelles s'élance le jet flexible de l'aloès, donnent à tout ce paysage un caractère particulier qui n'est pas sans charmes...»), così ricchi di memorie storiche più o meno lontane («la maison paternelle de Pascal, le château baronial, une de ces belles croix de pierre du seizième siècle, la forteresse de Castel-Novo»), tutto fa ritenere che il giorno 11 ottobre 1835, Alexandre Dumas padre abbia realmente visitato il villaggio di Bauso e che, tra gli altri, vi abbia incontrato, in quella specie di locanda-ristorante («une espèse d'uberge») che era «la seule qu'il y eût dans le pays» l'oste Guiga (uno dei nomi con cui veniva chiamato in Sicilia Giufà) che, per la freschezza e la vivacità dei tratti con cui viene rappresentato dalla penna di Dumas, sembra quasi essere uscito da una stampa dell'epoca («L'hôte vin nous recevoir de l'air le plus affable du monde, son chapeau à la main et son tablier retroussé»).

Giuseppe Celona

 

Alle quattro del pomeriggio dello stesso giorno, uscimmo dal porto.

Il tempo era splendido, l'aria tersa, il mare appena increspato. Ci trovavamo, più o meno, alla stessa altezza dalla quale, al nostro ar rivo, sei settimane prima, avevamo avvistato le coste della Sicilia. Di diverso c'era che adesso Stromboli restava alle nostre spalle, invece di essere alla nostra sinistra. E di nuovo, che si scorgevano, dalla medesima distanza ma sotto una luce diversa, le montagne azzurre della Calabria e le coste bizzarramente frastagliate della Sicilia, più marcate rispetto al cono dell'Etna, che dopo la nostra salita si era ricoperto di un largo mantello di neve.

A ciò si aggiunga che avevamo appena visitato il favoloso arcipelago che Stromboli rischiara come un faro. E tuttavia, abituati ormai a quei magnifici orizzonti, gettavamo, adesso, soltanto uno sguardo distratto su di loro. Mentre i nostri marinai, che erano nati sulle terre di Sicilia, passavano addirittura indifferenti e disinteressati in mezzo agli scenari lussureggianti di quei mari che avevano solcato fin dalla loro infanzia in tutte le direzioni.

Jadin, seduto accanto al timoniere, tracciava uno schizzo di Strombolicchio - frammento staccatosi da Stromboli, forse a causa dello stesso cataclisma che separò la Sicilia dall'Italia, e che va a spegnersi nel mare. Mentre io, in piedi, appoggiato al tetto della cabina, consultavo una carta geografica alla ricerca di quale strada prendere per giungere, attraverso le montagne, da Reggio a Cosenza.

Nel bel mezzo della mia ricerca, sollevai la testa e mi accorsi che eravamo arrivati all'altezza del capo Bianco. Ritornai con gli occhi dalla terra alla carta e vi riscontrai, lontano appena due leghe da quel promontorio, il piccolo borgo di Bauso.

Questo nome ridestò subito ricordi confusi nella mia mente. Ricordai che nelle nostre chiacchierate serali, durante una di quelle belle notti stellate trascorse, talvolta, per tutta la loro durata coricati sul ponte, qualcuno aveva raccontato una storia nella quale si faceva il nome di quel paese. Ed io non volevo farmi sfuggire l'occasione di arricchire la mia raccolta di leggende.

Chiamai il capitano, il quale fece immediatamente un segno per imporre silenzio all'equipaggio che, come al solito, stava cantando in coro. Si tolse il berretto frigio e venne avanti verso di me con quel l'aria di buonumore che costituiva la nota dominante del suo volto.

-Vostra Eccellenza mi ha chiamato? - mi disse.

- Sì, capitano.

- Sono ai vostri ordini.

- Capitano, non siete stato voi, un giorno o una notte, non so più quando, a raccontarmi qualcosa, come una storia che aveva a che fare col villaggio di Bauso?

- Una storia di banditi?

- Credo di sì.

- Non sono stato io, Eccellenza. E' stato Pietro.

E si girò a chiamare Pietro.

Pietro arrivò difilato, eseguì un saltello, malgrado lo stato pietoso in cui le ceneri di Stromboli avevano ridotto le sue gambe, e restò impalato davanti a noi, con la mano alla fronte come un sol dato nell'atto di salutare, e con una serietà carica di comicità.

- Vostra Eccellenza mi chiama? - chiese.

Immediatamente, tutto l'equipaggio, credendo che si trattasse di uno spettacolo di danza coreografica, si avvicinò. Venni a trovarmi così al centro di un semicerchio che si apriva fino a occupare la speronara per tutta la sua larghezza.

Jadin, dal canto suo, aveva ultimato il suo schizzo. Ficcò l'album in una delle undici tasche della sua giacca di panno. Batté l'acciarino e accese la pipa. Salì sull'impavesata, tenendosi a una corda con tutte e due le mani per essere sicuro, per quanto possibile, di non cadere in mare. E cominciò a seguire con gli occhi gli sbuffi che mandava fuori dalla bocca, con l'attenzione seria di chi ha interesse ad acquisire informazioni certe sulla direzione del vento.

Intanto Filippo, il suonatore della compagnia, occupato, al mo mento, sull'interponte a pelare patate, sporse la testa da un bocca porto e interrompendo, per un momento, le sue occupazioni culina rie, si mise a fischiare il motivo di una tarantella.

- Non è il momento di ballare - disse il capitano. - Sua Signoria ricorda che tu gli hai parlato di Bauso.

- Oh! - riprese Pietro. - Sì, sì, a proposito di Pasquale Bruno, non è vero? Un bandito coraggioso. Me lo ricordo bene. L'ho visto quando avevo l'età del figlioletto del capitano. Quando temeva di non poter dormire tranquillo a casa sua, veniva a chiedere a mio pa dre ospitalità per una notte. Sapeva bene che non sarebbero stati i pescatori a tradirlo. Così, nel momento in cui ci disponevamo a partire per la pesca, lo vedevamo scendere dalla montagna. Ci fa ceva un segno, lo aspettavamo. Si coricava sul fondo della barca, con la carabina accanto e le pistole alla cintura. E dormiva tranquillo come il re nel suo castello, nonostante la sua testa valesse 8.000 piastre.

- Burlone! - esclamò Jadin, lasciando cadere l'accusa, distesa in tutta la sua lunghezza e di peso, tra due sbuffi di fumo.

- Come! Che cosa dice il vostro amico? Che non è vero? Chie dete al capitano Arena.

- E' vero - disse il capitano.

- E non potreste raccontarci la sua storia?

- Oh, la sua storia! E' lunga.

- Tanto meglio - risposi.

- Il fatto è che non la conosco tanto bene - disse Pietro, grat tandosi l'orecchio. - E poi, vedete, sapendo che tutto quello che vi direi sarebbe, un giorno, stampato nei libri, non vorrei raccontarvi delle frottole. Nunzio, Nunzio!

Alla chiamata di Pietro, ci girammo verso il punto dove sape vamo che doveva trovarsi colui che veniva chiamato. Scorgemmo, infatti, la sua testa mostrarsi dall'altro lato della cabina.

- Nunzio - gli disse, - voi che sapete tutto, conoscete la storia di Pasquale Bruno?

- Quanto a colui che sa tutto - disse il timoniere con quell'espres sione di serietà che non lo abbandonava mai, - non vi è che Dio, il quale, senza amor proprio, possa vantarsi di saperla così lunga senza averla imparata. Comunque, per quanto riguarda Pasquale Bruno, non ne so molto. So soltanto che è nato a Calvaruso e che è morto a Palermo.

- In tal caso, timoniere, ne so ancor più di voi - disse Pietro.

- E' possibile - disse Nunzio, scomparendo a poco a poco dietro la cabina.

- Ma non ci sarebbe un modo - continuai, insistendo, - di procu rarsi informazioni esatte su quest'uomo? Voi, capitano, conoscete qualcuno che faccia al caso nostro?

- No, in fede mia! Tutto quello che so, è che era incantato.

- Come, incantato?

- Sì, sì. Aveva fatto, per un determinato tempo, un patto con il diavolo, perciò non poteva essere ferito né da pallottole né da pu gnale.

- Buffone di un capitano! - disse Jadin, sputando in mare.

- Come? - soggiunsi, obiettando alla questione con la stessa serietà con cui era posta, - credete che si possa fare un patto?

- Da parte mia non ne ho fatto mai - rispose il capitano, - ma ecco là Pietro che ne ha fatto uno.

- Come, Pietro! Avete venduto la vostra anima?

- Oh, per niente! Il diavolo ne aveva proprio voglia - disse Pietro, - ma il figlio di mia madre è scaltro quanto lui. Figuratevi, avevo diciotto anni, ero ambizioso come tutti. Volevo pescare più pesce di quanto ne pescassero i miei compagni. Sono stato pescatore prima di essere marinaio. Perciò sono andato a trovare una vecchia strega, una strozzina di Taormina, la quale mi disse che le avrei do vuto dare metà del pesce che avrei pescato, in cambio delle esche che mi avrebbe preparato ogni sera. Fu stretto il patto. Durò un anno. Durante quell'anno ho preso tanto di quel pesce da poter riempire quattro volte questo bastimento che voi vedete.

Alla fine dell'anno le dissi: - Va sempre, ve', il mare. - Sì - mi ri spose, - ma quest'anno voglio farti diventare ricco. L'anno scorso hai pescato solo pesce, quest'anno voglio farti pescare il corallo. - No, comare - le risposi, - un mio compagno è stato tagliato in due da un pescecane, ed io non sento di avere questa vocazione. - Tu mi firmerai una carta - disse la vecchia, - e io ti darò un unguento con il quale ti spalmerai. E i pescecani non potranno nulla su di te. - Bene, bene - le dissi, - conosco il vostro intruglio. Adesso basta, non ne parliamo più.

Presi il mio berretto, corsi dal curato, gli feci cantare una messa, e tutto finì. L'indomani, due giorni dopo, sono ritornato alla pesca: buonasera, manco una triglia. Così, appena ho visto che non funzio nava, mi sono fatto marinaio. Ecco, è da quindici anni che lo sono. E, come vedete, mi è giovato molto dal momento che ho l'onore di es sere al servizio di Vostra Signoria.

- Vile adulatore! - disse Jadin, dandogli una pedata d'amicizia sul didietro.

- Ebbene, capitano! Per tornare a Pasquale Bruno, pare che sia stato meno scrupoloso di Pietro.

- Sì - rispose seriamente il capitano. - Prova ne sia che quando lo hanno impiccato a Palermo, il diavolo ha gettato un così alto grido uscendo dal suo corpo, che mio padre, che assisteva all'esecuzione nella sua qualità di capitano della milizia, è scappato alla testa della sua compagnia, e nella confusione qualcuno gli ha rubato la giberna e le fibbie d'argento delle scarpe. Questo, vedete, ve lo posso garantire, perché me lo ha raccontato cento volte.

- Sentite - disse Pietro, che durante la tiritera del capitano sem brava averci attentamente pensato, - volete delle informazioni si cure e certe?

- Ma senza dubbio. E' da un'ora che le chiedo.

- Ebbene, aspettate. Nunzio, quando saremo a Messina?

- Questa sera, due ore dopo l'Ave Maria.

- Esatto, vedete, verso le nove. Bene. Dunque, saremo a Messina questa sera verso le nove. E' vangelo: l'ha detto il vecchio. Questa notte non andrete a dormire a terra. Sarà troppo tardi perché il capi tano si faccia vistare la patente. Ma domani, all'alba, potrete scen dere a terra, prendere una carrozza e in tre ore raggiungere Bauso che si trova a otto leghe da Messina.

- Perdio! - feci, interrompendolo, - questa vostra idea è meravi gliosa, ma credo di averne una ancora migliore.

- E quale?

-Non andremo a Messina, andremo direttamente al capo Bianco. C'è pressappoco la stessa distanza, e il vento è favorevole. Ebbene, qual è il problema?

Gli rivolsi questa domanda perché mi accorsi che la mia pro posta aveva provocato nell'equipaggio una certa reazione. Pietro e i suoi compagni, un istante prima così allegri, si stavano guardando l'un l'altro con un certo timore. Filippo era rientrato nell'interponte come se il diavolo lo avesse tirato per i piedi. Il capitano era divenuto pallido come un morto.

- Andremo al capo Bianco se Vostra Eccellenza lo vuole - disse quest'ultimo con voce alterata. - Siamo qui per obbedire ai vostri or dini. Ma se per voi non fa differenza, anziché andare al capo Bianco, potremmo andare a Messina, come eravamo rimasti d'accordo prima. Tutti ve ne saremmo quanto mai riconoscenti. Non è così anche per gli altri?

Tutti i marinai, restando in silenzio, fecero un segno di approva zione con la testa.

- Potrei almeno sapere il motivo del vostro rifiuto? - chiesi.

- Ve lo dirà Pietro: lui c'era.

- Ebbene, ragazzi miei, andiamo a Messina!

Il capitano mi prese la mano e me la baciò. Pietro trasse un so spiro di sollievo, come se gli avessero levato Stromboli da sopra il petto. E tutti gli altri sembravano così contenti come se avessi regalato a ciascuno di loro dieci piastre. Ruppero subito le fila e tor narono ai loro posti. Tranne Pietro, che si sedette su un barile.

- In questo caso - disse Jadin, saltando dall'impavesata sul ponte, - non c'è più alcun motivo per non fare friggere le patate.

E scese giù in cucina, avendo poca dimestichezza col dialetto siciliano; mentre io, che non volevo perdere una sola parola dell'interessante racconto, andai a sedermi vicino a Pietro.

- Vedete - mi disse Pietro, - da allora sono trascorsi undici anni. Era il 1824. Il capitano Arena, non questo, suo zio, si era appena sposato. Era un bel giovane di ventidue anni, che aveva un piccolo bastimento con il quale praticava il commercio lungo tutte le coste. Aveva sposato una ragazza del villaggio di Pace, che voi conoscete bene. E' il paese che si trova tra Messina e il Faro, dal quale prove niamo quasi tutti noi.

Avevamo mangiato e bevuto smodatamente per tre giorni, e il quarto, che era di domenica, eravamo andati al lago di Pantana. C'era la processione di San Nicola, processione alla quale, quest'anno, avete assistito anche voi. Era un giorno di grande festa. Come sapete, si porta in giro la statua del santo; si sparano i giuochi d'artificio e colpi di fucile; si balla.

Antonio dava il braccio alla sua donna, quando si sente toccare e chiamare per nome. Si girò. C'era una donna velata da un velo di taffettà nero, tale e quale quello che avete visto portare alle donne siciliane. Per uscire in strada, però, non per andare alle feste. Credendo di essersi sbagliato, continua per la sua strada. Bene. Cinque minuti dopo, la cosa si ripete. Viene toccato e viene fatto nuovamente il suo nome. Adesso era sicuro del fatto suo, ma essendo con la sua donna, fa ancora finta di niente. Infine, il fatto si ripropone per la terza volta. Oh, questa volta perde la pazienza. - Tieni, Pietro - mi disse, - resta accanto alla mia donna. Vedo laggiù qualcuno a cui è necessario ch'io parli.

Non me lo faccio dire due volte. Prendo la manina della sposa, la passo sotto il mio braccio, ed eccomi fiero come un pavone di portare a spasso la donna del mio capitano. Quanto a lui, si era già dileguato.

Camminando, incontrammo un suonatore ambulante che suonava una tarantella con la chitarra. Voi lo sapete, quando sento questo diavolo di motivo, non posso più trattenermi, devo saltare per forza. Invito la donna del capitano a ballare la piccola contraddanza. Ci mettiamo uno di fronte all'altra, e via. Nel giro di cinque minuti, si fece cerchio attorno a noi.

A un tratto, in mezzo a quelli che ci guardano, scorgo il capitano Antonio, ma così pallido, così pallido, che credetti, sul mio onore, che si trattasse della sua ombra. Perdo il tempo e cado a piombo con i due talloni sui piedi del timoniere. - Ah! - gli dissi, - vi chiedo scusa, Nunzio, mi è preso un crampo. Ballate un istante al posto mio. E' molto compiacente, come vedete, il timoniere, e così resistente al do lore, che è un bue per la sua tenacia. Si mette a ballare su un piede, l'altro glielo avevo pestato. Nel frattempo, faccio un segnale al capi tano. Si avvicina.

- Ebbene! - gli dico, - che è successo?

- L'ho rivista.

- Chi?

- Giulia.

- La bella strega?

- Sì.

- Che vi ha detto?

- Niente. Stupidaggini.

- Vi ama sempre?

- Non lo so. Ma ho fatto male a seguirla. Dov'è la mia donna?

- Non la vedete? Balla la tarantella con Nunzio.

- Ah! sì, è vero. Credi che sia vero ciò che si dice di lei?

- Della vostra donna?

- No, di Giulia. Credi che sia una strega?

- Perbacco! Si dice che a Palma siano tutte streghe.

Il capitano si passò la mano sulla fronte. Grondava sudore a grosse gocce. In quel mentre, la tarantella finì. La sua donna venne a prenderlo di nuovo a braccetto. Antonio le propose di rincasare. Lei non chiedeva di meglio. A una donna appena sposata, voi lo capite, non dispiace di stare sola con il suo uomo. Il capitano mi fece un se gno che significava: non una parola! Gli risposi con un altro segno che voleva dire: basta così. E ci voltammo le spalle, come se non ci fossimo mai visti.

- Ma che cos'era Giulia? - lo interruppi.

- Ah! ecco. Dovete sapere che un anno prima, alla festa di Palma, alla quale il capitano Arena Antonio, lo zio del nostro...

- Lo capisco bene.

- Era andato, nostro malgrado, aveva preso le difese di una gio vane, insultata da un marinaio calabrese. Dalle parole si passò ai fatti, e il capitano si buscò una coltellata. Un brutto colpo: tre pollici di lama. Fortunatamente però dal lato destro. Se fosse stato dalla parte sinistra, gli avrebbe trafitto il cuore.

Venne trasportato a casa di una vecchia donna, e si fece venire il medico, un bravo medico. Oh! oh! se fosse in una grande città, farebbe la sua fortuna. Ma a Palma non vi sono molti malati, perciò è costretto a fare un po' di tutto. Ferra i cavalli, dà da bere...

- Perfettamente. Ne sono al corrente.

- Vide il capitano, lo visitò attentamente, ficcò il dito nella ferita. - Non vi è niente da fare - disse. - Se tutti i medici di Catanzaro e di Cosenza fossero qui, a loro non farebbe né caldo né freddo. E' un uomo spacciato. Girategli la faccia dalla parte del muro e fatelo mo rire in pace.

- Fu la gente che si trovava là a ripetere, poi, le sue testuali pa role al capitano. Che non sentiva niente, era privo di conoscenza e soffriva come un dannato. Fecero come aveva detto lui. Fu acceso un cero accanto al suo letto, e la vecchia si mise a dire il rosario in un angolo. Lo si credeva morto.

Verso mezzanotte, il capitano, che aveva sempre gli occhi chiusi, avverte qualche cosa, come un miglioramento. Respirava, andiamo! Era come se qualcuno (me lo ha raccontato venti volte, povero capi tano!), era come se qualcuno gli avesse tolto la cattedrale di Messina da sopra il petto.

Avvertiva qualcosa che gli faceva bene e ancora bene, tanto che aprì gli occhi e gli sembrò di sognare. La vecchia si era addormentata in un angolo borbottando le sue preghiere. E al chiarore del cero che vegliava, vide una ragazza piegata su di lui. Aveva la bocca premuta contro il suo petto e succhiava la sua ferita. Dalla finestra aperta si scorgeva un bel cielo stellato che lo indusse a credere che si trattasse di un angelo disceso dall'alto. Perciò non aprì bocca e la lasciò fare. Temeva che, parlando, la giovane potesse sparire.

Dopo qualche istante, lei staccò la bocca dalla ferita, prese da un piccolo mortaio un pugno di erbe pestate e ne spremette il succo sulla ferita. Poi piegò il proprio fazzoletto in quattro e lo pose sulla ferita a mo' di apparecchio di contenzione.

Infine, vedendo che non si muoveva, avvicinò la faccia alla sua come per sentire se respirava. Fu allora che il capitano riconobbe la ragazza per la quale si era battuto. Avrebbe voluto parlare, ma lei gli mise la mano sulla bocca e, portando il dito alle labbra, gli fece capire che doveva stare zitto; poi, ritirandosi senza far rumore, come se scivolasse sulla terra invece di camminare, aprì la porta e scomparve.

Il capitano (oh! me lo ha detto lui, e non era un bugiardo) cre dette che fosse un sogno. Mise la mano sulla ferita per vedere se fosse vera, e sentì il fazzoletto umido. Gli parve allora che premendolo contro il petto provasse sollievo. Ed era vero, a quanto sembrava. Infatti si addormentò di un sonno così tranquillo che si svegliò l'indomani nella stessa posizione e con la mano sempre allo stesso posto.

Appena aprì gli occhi entrò il medico.

- Ebbene, comare - disse, - è morto il nostro malato?

- Beh! non lo so - disse la vecchia, - so solo che non ha sofferto.

Il capitano fece un movimento nel letto.

- Ah! eccolo che si muove - disse il medico. - Ebbene, ne rispondo io. Questo pezzo d'uomo ha la vita dura.

A quelle parole, si avvicinò al letto. Il ferito si girò dalla sua parte.

- Diavolo! - disse il medico, - siamo arzilli, mi pare.

- Sì, dottore - disse il capitano, - non c'è male. E se non fosse che non so che cosa mi sia capitato alle gambe, potrei camminare.

- Ah! - fece il dottore, - è la febbre che continua... Vediamo un po'.

Il capitano gli porse il braccio, il dottore gli tastò il polso.

- Niente febbre - disse. - Che vuol dire? Vediamo la ferita.

Il capitano ritrasse la mano che aveva tenuto costantemente sul petto, il medico sollevò la pezza: la ferita era ancora aperta, ma nelle migliori condizioni possibili. Capì, allora, che si era sbagliato e che il capitano se ne sarebbe ricordato. Mandò subito a cercare certi in trugli, preparò un impiastro e glielo applicò sul collo, dicendogli di stare tranquillo che tutto sarebbe andato per il meglio.

Due ore dopo il capitano aveva una febbre da cavallo. Soffriva tanto che un altro si sarebbe messo a gridare. Ma siccome era nato coraggioso, si mordeva i pugni e diceva: E' per il tuo bene, Antonio, bisogna soffrire per guarire, mio caro amico. Così impari a non immi schiarti nelle cose che non ti riguardano. Poi diceva le preghiere per non bestemmiare. Il suo stato di salute, come capita sempre in questi casi, andò peggiorando fino a notte. Infine, stremato dalla stanchezza, si addormentò.

A mezzanotte, più o meno (capite bene che non si era dato pen siero di dare la corda al suo orologio), avvertì un dolore così vivo che si svegliò. Era ritornata la giovane dell'altra notte e gli stava to gliendo la medicazione del dottore. Gli fece segno, come la notte pre cedente, di non parlare. Tirò dal petto una piccola bottiglietta e lasciò cadere sulla ferita alcune gocce di un liquido verdastro, che gli spense il fuoco che aveva nel petto. Poi, come la notte prima, la giovane prese un po' di erbe pestate, ma questa volta gliele mise di rettamente sulla ferita, gliele fermò con una benda, fece di nuovo segno a lui che tendeva le braccia verso di lei, di non muoversi, e scomparve come la prima volta.

Il capitano si sentì rinfrescare come se lo avessero messo in un bagno di latte. Non più dolore, non più febbre, niente, se non la male detta debolezza. Infine si addormentò.

Non si era ancora svegliato, l'indomani, che venne a fargli visita il dottore. Al rumore dei suoi passi, aprì gli occhi.

- Di bene in meglio - disse il medico. - Buona cera; tirate fuori la lingua: buona lingua; datemi la mano: polso buono; vediamo la fe rita.

- Ah! - disse il capitano, togliendo la compressa di erbe e la benda che la tratteneva, - la medicazione si è rovinata durante la notte.

- Non importa, vediamo lo stesso.

La ferita andava a meraviglia, era pressoché chiusa. Il dottore consigliò un secondo impiastro, simile al primo, e incaricò la vecchia di applicarlo sul fianco del malato.

Ma appena egli girò le spalle, il capitano, che ricordava quello che aveva sofferto il giorno avanti, gettò via dalla finestra quel diavolo d'impiastro, rimise sulla ferita le erbe, per quanto secche fos sero, e sentendosi bene, chiese di bere un brodo. La vecchia gli disse che era vietato. Non poteva ribattere nulla. Dovette farne a meno, e lasciò correre ogni cosa. Si sentiva meglio.

A sera, disse alla vecchia che poteva andare a coricarsi perché non aveva più bisogno di nessuno. Lasciasse la lampada accesa, se avesse avuto bisogno di lei, l'avrebbe chiamata. La vecchia, che non domandava niente di meglio, lo accontentò e lo lasciò solo.

Questa volta, invece di addormentarsi, restò con gli occhi aperti, fissi alla porta, che a mezzanotte si aprì come di consueto. La ragazza avanzò verso di lui.

- Non dormite? - chiese al capitano.

- No, vi aspettavo.

- E come state?

- Oh! bene, per tutto il giorno e ancora meglio adesso.

- La vostra ferita?

- Guardate: si è chiusa.

- Sì.

- Grazie a voi. Siete stata voi a salvarmi.

- Curarvi era proprio il meno che potessi fare per voi. E' per me che siete stato ferito. Ma grazie a Dio, siete guarito.

- Guarito così bene, - rispose il capitano, - che non ho perduto di vista il brodo della vecchia. Ve lo confesso: muoio di fame.

La ragazza sorrise e tirò fuori la bottiglietta della notte avanti, che questa volta conteneva un liquido rosso come il vino. La svuotò in una piccola tazza che trovò sul caminetto, e la porse al capitano.

Non era la bevanda da lui richiesta, tuttavia la prese e l'assaggiò contro voglia. Ma sentendo che era dolce come il miele, la bevve d'un sorso. Per quanto fosse poca cosa, gli calmò gli stimoli dello stomaco. Eccezionale: a mala pena l'equivalente di un bicchierino di rosolio! E non era tutto. Ben presto avvertì un calore piacevole che gli corse per tutto il corpo. Credette di essere in paradiso. Povero capitano! Guardava la ragazza, le parlava senza sapere cosa dicesse. Infine, sentendo che i suoi occhi si chiudevano, le prese la mano e si addormentò.

- Non era lo stesso liquore - chiesi, - che, in una circostanza si mile, il locandiere Matteo diede a Gaetano Sferra?

- Proprio quello. Ha vissuto in quei paesi, il vecchio, e vi ha conosciuto la povera figliola che gli ha dato la sua ricetta. E' da credere, inoltre, che fosse una bevanda magica.

Il capitano, infatti, fece dei sogni d'oro. Gli parve di essere alla pesca del corallo dalle parti di Pantelleria. Pescava rami stupendi di corallo e ne aveva pieno il bastimento, tanto che non sapeva più dove metterlo. Dovette decidersi ad andare a venderlo. Partì per Napoli. Un piccolo ventaglio di ragazza lo spingeva di dietro come con la mano. Quando arrivò nel porto, il cordame era di seta, le vele di taffettà rosa, e il suo bastimento di legno di mogano. Il re e la regina, che erano stati avvisati del suo arrivo, l'aspettavano e gli facevano segno con la mano. Infine scese a terra, venne portato al palazzo dove gli fecero bere del lacrima-christi in bicchieri sfaccettati, e mangiare i maccheroni in zuppiere d'argento. Si trattava di un sogno alla fin fine. Comprarono il suo corallo a un prezzo superiore a quello per il quale intendeva venderlo, e ritornò ricco, ricchissimo. Tutta la notte, non c'è che dire, fece sogni così.

- Aveva preso l'oppio? - lo interruppi.

- E' possibile. Tanto che l'indomani, quando si svegliò, si credeva di essere il gran Turco. Ma appena entrò la vecchia, si rese conto che si stava sbagliando. Si ricordò di essere semplicemente il capitano Antonio Arena, che era stato ferito, e che aveva scambiato per vino del Vesuvio e maccheroni nient'altro che quattro gocce di liquore rosso che una ragazza gli aveva versato in una tazza che era ancora sulla cassa, vicino al suo letto. Ma non aprì bocca sul l'accaduto. Chiese solo di alzarsi. Gli fu messa una poltrona accanto alla finestra, prese un bastone, e in fede mia, alla meno peggio riuscì a camminare. Tre giorni dopo aver ricevuto una simile coltellata. Ne aveva, però, di coraggio!

Alla fine, quando entrò il medico, aveva tutta l'aria di un presi dente. Stentava a crederci, il povero caro uomo. Era la più bella cura che aveva prescritto in vita sua. Si sedette accanto al malato.

- Ebbene, capitano - gli disse, - a quanto pare andiamo di bene in meglio.

- Lo vedete, dottore. A perfezione.

- Oh! Non è il caso di tastarvi il polso, né di guardarvi la lingua. Dovrete avere solo un po' di pazienza, e le forze ritorneranno. Ma quando saranno tornate, se posso darvi un consiglio, non battetevi più per tutte le streghe che incontrerete, in quanto, vedete, ce n'è più di una in Calabria.

- Che volete dire?

- Dico che colei per la quale avete ricevuto la coltellata, da cui la mia scienza vi ha appena guarito, non valeva la vita che stavate per rimetterci.

- Come?

- Non la conoscevate?

- No.

- Ebbene, è Giulia.

- Giulia! E' il suo nome? E dopo?

- Dunque, dopo... è il nome di una strega. Ecco tutto.

- Lei! Lei è strega!

Il capitano impallidì. Poi, non essendone ancora convinto: - Strega? - riprese. - Dottore, ne siete proprio sicuro?

- Sicuro come della mia esistenza. Innanzitutto, è una giovane senza padre né madre. Poi, vedete, è cresciuta con un pastore, uno iettatore, un avvelenatore anche.

- Ma questa non è una ragione per cui quella povera figliola...

- Quella povera figliola è una strega, vi dico. L'ho incontrata io nei campi, di notte, nel tempo del plenilunio, mentre cercava le erbe e le piante con le quali opera i suoi malefici. Quando capita una disgrazia sulla montagna o sulla spiaggia, e un marinaio annega o un uomo riceve una coltellata, lei, di notte, li va a trovare, fa loro riacquistare i sensi con parole magiche e dà loro beveraggi compo sti con piante sconosciute. E quando i malati sono prossimi alla guarigione, fa sottoscrivere loro un patto. Ebbene, che avete, capitano, che diventate bianco come un panno? Un sudore! Oh! oh! è la debolezza. Vedete, vi siete alzato troppo presto. Però andrà bene domani. Verrò a vedervi.

- Dottore - disse il capitano, - vorrei regolare il mio conto con voi.

- Bah! Non c'è alcuna fretta - rispose il medico.

- Ma certo, ma certo.

- Dunque, sapete da dove vi ho tirato fuori. Mi darete ciò che vor rete, ciò che credete ch'io meriti. Non faccio mai questione di prezzo, io.

- Un ducato per visita, va bene, dottore?

- Vada per un ducato per visita.

Il capitano gli diede tre ducati, e il dottore uscì.

Un quarto d'ora dopo arrivammo noi con tre uomini dell'equi paggio del capitano. Nunzio, il mio povero fratello e io eravamo ve nuti a conoscenza dell'incidente quello stesso giorno ed eravamo sal tati sulla nostra barca. Oh! una piccola barca coi fiocchi, suvvia, che filava come una rondine. Avevamo compiuto la traversata da Pace a Palma, distanti tra loro nove grandi leghe, ve lo devo dire, in tre ore e mezza, non un minuto in più. Una buona velocità, ve'!

- Buonissima. Mi sembra, però, che vi stiate discostando dal vo stro racconto, mio caro Pietro.

- E' vero. Ah! - disse il capitano vedendoci, - siate i benvenuti.

Povero capitano! Gli baciavamo le mani come si fa col pane. Vedete, ci avevano detto che era morto, e invece lo ritrovavamo non soltanto vivo, ma anche in piedi e con una buona cera. A dire il vero, non stavamo più in noi dalla gioia.

- Non è questo, ragazzi miei, tutto quello che ho da dirvi. Siete venuti con la barca?

- Sì.

- Bene. Bisogna tenerla pronta per partire tutti insieme questa notte.

- Questa notte?

- Zitto!

- Capitano, non ci pensate, ferito come siete.

- E' necessario, vi dico. Non ci sono ragioni né discorsi né osser vazioni che tengano. Quando vi dico che bisogna partire, vuol dire che bisogna partire.

- E se il vento fosse sfavorevole?

- Andremo a remi, anche se dovessi mettermi a remare pure io.

- Voi, capitano? Andiamo, allora. Vi farà bene svagarvi, dal mo mento che state bene e vi è bonaccia. Ma poiché siete ferito, farà bello.

- Perciò, intesi.

- Intesi.

- Fate portare del vino, e del migliore. Pago io.

Abbiamo fatto portare vinello della Calabria e castagne. Vedete, quando vi trasferirete in Calabria, non ve ne dimenticate. Non c'è nient'altro di buono in quel paese, se non il moscato e le castagne. In quanto agli uomini, sono veri e propri briganti che hanno tradito Gioacchino, e poi l'hanno fucilato.

- Ma, a quanto pare, ce l'avete proprio con i Calabresi.

- Oh! tra loro e noi c'è una guerra all'ultimo sangue. Ve ne rac conterò di belle sul loro conto, state tranquillo. Ma per il momento, torniamo al capitano. Egli bevve un piccolo bicchiere pieno di vino, che gli fece un grande bene. Si sentì ritornare le forze, e fu una benedizione. Infine, alle venti, lo lasciammo per andare a preparare il necessario. Alle ventitré eravamo di ritorno. Aveva perso la pa zienza, il capitano. Era già alzato e pronto a partire.

- Ah! - disse, - temevo che non foste arrivati prima di mezzanotte. Filiamo.

- Senza dire niente a nessuno?

- Il medico l'ho già pagato, ed ecco due piastre per la vecchia.

- Fate le cose in grande, capitano.

- Purché mi restino, al mio arrivo a Pace, due carlini per fare dire una messa. Ecco tutto quello di cui ho bisogno. In viaggio!

- Oh! con il vostro permesso, capitano, voi non dovete cammi nare, vi porteremo noi.

- Come volete. Ma andiamo via.

Nunzio lo prese sulle spalle come si fa con un bambino. Eravamo a non più di cento passi dal posto dove avevamo ormeggiato la barca, e in dieci minuti ci arrivammo.

Nel momento in cui deponevamo il capitano nella barca, scor gemmo una figura bianca sollevarsi lentamente da uno scoglio della riva. Ci guardò un istante, Poi ci sembrò che scivolasse lungo la grande roccia. E si mosse verso di noi. Spingemmo il barcone nell'acqua, dandole il tempo di avvicinarsi. Non era a più di quindici passi da noi, che il capitano la scorse.

- La barca è in mare? - chiese il capitano, alzandosi, e con una voce così forte come se fosse pieno di salute.

- Sì, capitano - rispondemmo in coro.

- Suvvia! ai remi, amici miei, e al largo, velocemente al largo!

La donna lanciò un grido. Ci girammo.

- Che cos'è questa donna? - chiese Nunzio.

- Una strega, - rispose il capitano, facendo il segno della croce.

Il battello fece un balzo sul mare e corse via come se avesse le ali. La povera creatura, che ci lasciavamo dietro, la vedemmo accasciarsi sulla sabbia, dove rimase stesa come morta.

Il capitano era caduto svenuto sul fondo della barca.

   
 
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