|
|
 |
|
Stampato
nel 1996 da La Spiga Languages - Milano
Tascabili La Spiga - Collana "Libreria
dei ragazzi"
|
|
|
|
|
 |
 |
Dei numerosi
romanzi che appartengono alla produzione
narrativa di A. Dumas, romanziere, drammaturgo,
memorialista francese del XIX secolo tra
i più popolari e più tradotti
del mondo, Pascal Bruno, pubblicato a Parigi
nel 1838, e non più tradotto in Italia
da oltre 150 anni, è quello che,
sicuramente, avrebbe meritato ben altra
fortuna. E ciò per almeno due motivi.
Innanzitutto, perché è la
prima opera ispirata alla Sicilia e, come
tale, rivela i primi segni di quell'interesse
crescente per l'Italia (italianismo), e
per la Sicilia in particolare, che attraverserà
tutta la vita dello scrittore francese,
spingendolo addirittura, il 9 giugno del
1860, a unirsi a Palermo ai garibaldini
al seguito del generale italiano nella Spedizione
dei Mille. In secondo luogo, perché
si tratta del primo romanzo storico di Dumas,
della sua prima esperienza, nel tempo, di
un tipo di racconto che lo renderà
celebre con i lavori successivi, tra i più
belli del genere, di "Il conte di Montecristo",
"I tre moschettieri", "Vent'anni
dopo"... Pasquale Bruno è, insomma,
opera del primo e migliore Dumas: avvincente,
agile, ben condotta, offre al lettore le
prime scene e le prime prove del romanzo
di avventura che diverranno tanto familiari
nei suoi capolavori.
Il protagonista di questa piacevole storia
è un bandito vissuto in Sicilia tra
la fine del 1700 e gli inizi del 1800. Ma
è un bandito particolare che incarna
l'ideale romantico dell'eroe insofferente
di ogni freno, amante della libertà,
grande anche nella sventura e nel dolore.
In una società ingiusta, qual era
la Sicilia feudale del XIX secolo, costituita
da masse enormi di infelici e di indifesi,
esposti ai torti e ai soprusi dei potenti,
si schiera dalla parte dei più deboli,
che gli dimostrano la loro premurosa riconoscenza
e devozione vigilando su di lui e sulla
sua incolumità.
Nonostante ciò, Pasquale non è
un capo banda, ma un uomo profondamente
solo, che vive la sua inquieta esistenza
al di fuori e al di sopra della società
umana, e in lotta anche con Dio. Suoi soli
amici sono un ragazzo africano, un brigadiere
dei gendarmi, quattro cani corsi e un cavallo
mezzo arabo e mezzo montanaro come lui.
In preda alle più travolgenti passioni,
sconvolto dai tormenti dell'anima che gli
precludono la via della salvezza eterna
rendendolo dannato sulla terra e nell'aldilà,
affascinato dalla magia, dalla stregoneria
e dall'occulto a tal punto da vendere l'anima
al diavolo in cambio di poteri sovrumani,
divorato dal sentimento dell'odio e della
vendetta, ma capace, all'occorrenza, di
concedersi "piaceri da principe"
e di circondarsi di un lusso e di un fasto
orientale che lo rendono personaggio caratteristico
e originale, si esalta nell'azione, nel
rischio, nell'avventura. E Dumas non può
non amare un simile personaggio, che risponde
perfettamente ai canoni della sua arte che
predilige la vita, l'istinto, l'azione.
Sullo sfondo delle avvincenti avventure
di Pasquale c'è la Sicilia prerisorgimentale.
La Sicilia dei paesaggi pittoreschi e bizzarri,
con la sua flora sconosciuta e strana: con
l'aloè "i cui fiori giganteschi,
che sembrano da lontano lance di cavalieri
arabi, racchiudono un filo più lucido
e resistente di quello della canapa e del
lino"; con il fico d'India e il melograno,
"duplice beneficio della Provvidenza
che, pensando alla fame e alla sete del
povero, ha disseminato questi alberi come
manna su tutto il territorio della Sicilia";
con gli oleandri e i papiri che fiancheggiano
la riva del fiume di Ragusa; con il "Castagno
dei cento cavalli", albero "colossale
e solitario" che si innalza sulle pendici
dell'Etna, chiamato così perché
"intorno al suo tronco, che misura
cento settantotto piedi di circonferenza,
e sotto il suo fogliame, che da solo forma
una foresta, possono trovare riparo cento
cavalieri con le loro cavalcature";
con gli aranci e le uve di Siracusa; con
il suo mare, "il magnifico mare di
Sicilia" che "per un gioco di
luci del sole che stava scomparendo all'orizzonte,
era, dal lato di Palermo, di un azzurro
pallido; volgeva onde d'argento intorno
all'isola delle Femmine; scagliava cavalloni
d'oro liquido sulle rocche di san Vito".
La Sicilia infestata dai pirati barbareschi,
che sequestrano il principe di Paternò,
l'uomo più ricco dell'Isola, oppure
fanno razzie di bestiame e di fanciulle
nel cuore della notte: "E' l'ora in
cui i pirati di Algeri e i corsari di Tunisi
escono dai loro covi, spiegano al vento
le vele triangolari delle loro feluche barbaresche
e si aggirano intorno all'Isola, come intorno
a un ovile le iene del Sahara e i leoni
di Atlante".
La Sicilia dei nobili con il loro lusso,
con la loro vita spensierata e gaudente,
con i loro splendidi palazzi, lo spreco,
nella capitale, della rendita parassitaria
proveniente dai loro feudi abbandonati nelle
mani dei gabelloti e dei campieri, i ricevimenti
sontuosi, le feste da mille e una notte,
i balli in maschera...
La Sicilia dei baroni feudali, arroganti
e prepotenti, signori assoluti del corpo
e dell'anima dei loro sudditi, sfruttati
e offesi persino nel loro onore e negli
affetti più cari...
La Sicilia delle masse di poveri e affamati
trasmigranti tra città e campagna.
La Sicilia priva dei più elementari
servizi necessari al vivere civile, senza
strade, senza alberghi, in condizioni igieniche
e di sottosviluppo socioeconomico veramente
paurose.
Ma, tuttavia, pur sempre una Sicilia magnifica
per i resti delle sue passate civiltà,
per la bellezza della sua natura incontaminata
e selvaggia, per i costumi e le tradizioni
del suo popolo istintivo e ospitale.
Giuseppe
Celona
|
|
|
|
|
 |
 |
Mi erano
particolarmente utili notizie dettagliate.
Contavo, infatti, nel giro di pochi mesi,
di partire per l’Italia e di visitare,
di persona, i luoghi che avevano fatto da
scenario alle principali vicende che ho
appena narrato . Perciò, nel riferire
il manoscritto del generale T…, mi
sono servito ampiamente del suo permesso
di utilizzare i suoi ricordi relativi ai
luoghi da lui visitati. E a dire il vero,
si possono rintracciare nel mio viaggio
in Italia molte notizie raccolte da me,
ma dovute, in fondo, alle sue informazioni.
Ma il mio scrupoloso cicerone mi abbandonò
alla punta estrema della Calabria e per
niente al mondo volle saperne di attraversare
lo Stretto. Non aveva voluto mai mettere
piede in Sicilia, sebbene avesse trascorso
due anni in esilio a Lipari, di fronte alle
sue coste. Da buon napoletano temeva che,
parlandomene, sarebbe stato inevitabilmente
condizionato dall’odio che i due popoli
nutrono l’uno per l’altro.
Non mi restava che mettermi sulle tracce
di un profugo siciliano, di nome Palmieri,
che avevo incontrato in passato, ma di cui
avevo smarrito il recapito. Da poco aveva
dato alle stampe due ottimi volumi di ricordi
e avrebbe potuto, perciò, anticiparmi
sulla sua isola, così poetica e così
poco conosciuta, quelle informazioni generali
e quelle indicazioni specifiche che sono
come le pietre miliari di un viaggio. Ma
una sera vedemmo arrivare al n. 4 del sobborgo
Montmartre il generale T… con Bellini,
al quale non avevo affatto pensato. Me lo
conduceva per completare l’itinerario
del mio viaggio. Non è il caso di
chiedere come sia stato accolto l’autore
della Sonnambula e della Norma nel nostro
circolo interamente dedito all’arte,
dove spesso il fioretto era solo un pretesto
preso a prestito dalla penna o dal pennello.
Bellini era di Catania. La prima cosa che
i suoi occhi, aprendosi, avevano visto,
erano state le onde che, dopo aver bagnato
le mura di Atene, vengono a spegnersi melodiosamente
sulle rive di un’altra Grecia; e l’Etna
favolosa e antica, sui cui fianchi vivono
ancora, dopo diciotto secoli, la mitologia
di Ovidio e i racconti di Virgilio. Ecco
perché l’indole di Bellini
era tra le più poetiche che si potessero
incontrare; e il suo genio, che bisogna
apprezzare con il sentimento e non giudicare
con la ragione, un canto eterno, dolce e
malinconico come un ricordo; un’eco
simile a quella che se ne sta assopita nei
boschi e sulle montagne, e che sussurra
appena fino a quando il grido delle passioni
e del dolore non venga a svegliarla. Bellini
era l’uomo che faceva al caso mio.
Aveva lasciato la Sicilia ancora giovane,
e dell’isola nativa gli era rimasta
una memoria crescente, dentro la quale custodiva
religiosamente, lontano dai luoghi in cui
era cresciuto, i ricordi poetici dell’infanzia.
Siracusa, Agrigento, Palermo si aprirono
così davanti ai miei occhi: magnifico
panorama allora a me sconosciuto, rischiarato
dai bagliori della sua fantasia. Infine,
passando dalle notizie topografiche ai costumi
del paese, sui quali non mi stancavo di
consultarlo:
- Ascoltate, - mi disse, - non dimenticate
di fare una cosa quando andrete da Palermo
a Messina, per mare o per terra. Fermatevi
al piccolo villaggio di Bauso , vicino al
promontorio di Capo Bianco. Di fronte a
una locanda, troverete una strada in salita
delimitata a destra da un piccolo castello
a forma di cittadella. Alle mura di quel
castello vi sono due gabbie: una di esse
è vuota, nell’altra biancheggia
da vent’anni una testa di morto. Domandate
al primo viandante che incontrerete la storia
dell’uomo a cui appartenne quella
testa, e avrete uno di quei racconti completi
che dipingono tutta una società,
dalla montagna alla città, dal contadino
al gran signore.
- Ma, - risposi a Bellini, - non potreste
raccontarci voi stesso questa storia? Dal
modo con cui ne parlate, si vede che ne
avete conservato un profondo ricordo.
- Non chiederei di meglio, - mi disse, -
perché Pasquale Bruno, che ne è
l’eroe, è morto proprio l’anno
della mia nascita , e io sono stato cullato,
fin dalla più tenera età,
da quella tradizione popolare ancora oggi
viva, ne sono sicuro. Ma come potrei raccontare
una tale storia con il mio cattivo francese?
- E’ solo per questo? - risposi. -
Ma noi tutti comprendiamo l’italiano;
parlateci la lingua di Dante: essa val bene
un’altra.
- Ebbene, sia! - riprese Bellini, porgendomi
la mano. - Ma a una condizione.
- Quale?
- Che al vostro ritorno, dopo aver visitato
quei luoghi, dopo esservi ritemprato in
mezzo a quella popolazione selvaggia e a
quella natura pittoresca, scriviate un romanzo
su Pasquale Bruno.
- Perdio, d’accordo! - esclamai, tendendogli
la mano.
E Bellini raccontò la storia che
state per leggere.
Sei mesi dopo partii per l’Italia,
visitai la Calabria, sbarcai in Sicilia.
Ma quello che sempre mi appariva, fra tutti
i grandi ricordi, come il luogo desiderato,
come la meta del mio viaggio, era la tradizione
popolare che avevo udito dalla bocca del
musicista-poeta, e che venivo a cercare
da ottocento leghe lontano. Infine, giunsi
a Bauso, vidi la locanda, andai su per la
strada, scorsi le due gabbie di ferro, una
delle quali era vuota, l’altra piena.
Dopo un anno di assenza ritornai a Parigi.
Ricordandomi dell’impegno preso e
della promessa da adempiere, cercai Bellini.
Trovai una tomba. |
|
|
|
|
 |
 |
Le città
sono come gli uomini: il caso ne governa
la fondazione o la nascita. E la posizione
topografica dove si innalzano le une, la
condizione sociale nella quale nascono gli
altri, influiscono, nel bene o nel male,
su tutta la loro esistenza.
Ho visto famose città tanto superbe
da pretendere di dominare su tutto ciò
che le circondava, sebbene poche case avessero
osato insediarsi stabilmente sulla cima
della montagna dove esse avevano posto le
loro fondamenta. Se ne restarono così,
per sempre, altere e povere, con le fronti
merlate nascoste tra le nuvole, battute
incessantemente dai temporali estivi e dalle
tempeste invernali. Sembravano regine in
esilio, seguite solo da pochi cortigiani
di sventura, e tuttavia troppo sdegnose
per abbassarsi a chiedere alla pianura un
popolo e un regno.
Ho visto piccole città tanto umili
da rifugiarsi in fondo a una valle, dove
sulle rive di un ruscello, al riparo delle
colline che le proteggevano dal caldo e
dal freddo, avevano costruito le masserie,
i mulini e le capanne. E trascorrevano in
quei luoghi una vita oscura e tranquilla,
simile a quella che conducono gli uomini
senza passioni e senza ambizioni, timorosi
di ogni rumore, abbagliati da ogni luce,
felici unicamente di restare nell’ombra
e nel silenzio.
Altre hanno iniziato la loro esistenza come
miseri villaggi in riva al mare. Ma a poco
a poco, man mano che le navi prendevano
il posto delle barche e i vascelli delle
navi, hanno trasformato le capanne in case
e le case in palazzi. E l’oro di Potosì
e i diamanti dell’India giungono,
ora, in grande quantità nei loro
porti, ed esse fanno risonare i loro ducati
e sfoggiano i loro ornamenti, come quei
nuovi ricchi che ci infangano con le loro
carrozze e ci fanno insultare dai loro servi.
Altre città, infine, sono venute
su, ricche, in mezzo a prati ridenti e si
sono estese sopra variopinti tappeti di
fiori. Vi si arrivava per sentieri bizzarri
e pittoreschi e per esse non si sarebbe
potuto immaginare che una vita lunga e prospera.
Ma, d’un colpo, la loro esistenza
è stata minacciata da una città
rivale che, innalzandosi sul ciglio di una
grande strada, richiamava a sé commercianti
e viaggiatori, e lasciava consumare lentamente
d’isolamento la poverina, come una
fanciulla alla quale un amore non ricambiato
inaridisce le sorgenti della vita. Ecco
perché si prova simpatia o antipatia,
amore o odio, per questa o quella città,
per tale o tal altra persona; ecco ciò
che ci spinge a designare pietre fredde
e inanimate con epiteti che sono propri
di esseri viventi e umani, e diciamo Messina
la nobile, Siracusa la fedele, Agrigento
la magnifica, Trapani l’invincibile,
Palermo la felice.
A dire il vero, se vi fu una città
predestinata, essa è Palermo. Posta
sotto un cielo senza nuvole, sopra una terra
fertile, in mezzo a campi suggestivi, col
porto che si apre su un mare che volge flutti
d’azzurro, protetta a nord dal colle
di Santa Rosalia, a oriente dal capo Zafferano,
è circondata da ogni dove da una
cerchia di monti che cingono la vasta pianura
dove è collocata. Mai odalisca bizantina
o sultana egiziana si è specchiata
con più languore, indolenza e piacere
nelle onde della Cirenaica o del Bosforo,
di quanto non faccia, volgendo il viso al
suo mare, l’antica figlia della Caldea
. Per questo non le è servito a niente
cambiare i padroni: i suoi padroni sono
scomparsi, ed essa è rimasta; e dei
diversi dominatori, sedotti sempre dalla
sua dolce bellezza, la schiava regina ha
conservato soltanto le collane al posto
di tutte le catene. Così gli uomini
del mondo hanno concorso a renderla splendida
tra le ricche. I Greci le hanno lasciato
i templi, i Romani gli acquedotti, i Saraceni
i castelli, i Normanni le basiliche, gli
Spagnoli le chiese. E poiché la latitudine
in cui si trova permette a ogni tipo di
pianta di fiorire e a qualsiasi specie di
alberi di crescere, essa riunisce insieme
nei giardini favolosi l’oleandro della
Laconia , le palme d’Egitto, il Fico
dell’India, l’aloè d’Africa,
il pino d’Italia, il cipresso di Scozia
e la quercia di Francia.
Niente vi sarebbe di più bello dei
giorni di Palermo, se non fossero ancora
più belle le sue notti. Notti d’Oriente,
notti trasparenti e profumate, nelle quali
il mormorio del mare, il fremito della brezza,
i rumori della città, sembrano un
concerto universale d’amore, e da
ogni cosa creata, dalle onde agli alberi
e dagli alberi all’uomo, si leva un
misterioso sospiro.
Salite sulla piattaforma della Zisa o sulla
terrazza del Palazzo Reale nell’ora
in cui Palermo dorme, e vi sembrerà
di essere seduti presso il letto di una
giovinetta che sogna di piacere.
E’ l’ora in cui i pirati di
Algeri e i corsari di Tunisi escono dai
loro covi, spiegano al vento le vele triangolari
delle loro feluche barbaresche, e si aggirano
intorno all’Isola, come intorno a
un ovile le iene del Sahara e i leoni di
Atlante. Infelici quelle città imprudenti
che si addormentano sulla riva del mare
senza luci e senza guardie. I loro abitanti
si sveglieranno ai bagliori degli incendi
e alle grida delle mogli e delle figlie.
E prima che giungano i soccorsi, gli avvoltoi
d’Africa voleranno via con le loro
prede. Poi, quando verrà il giorno,
si vedranno le ali dei loro vascelli biancheggiare
all’orizzonte e scomparire dietro
le isole dei Porri, di Favignana o di Lampedusa. |
|
|
|
|
|
|
|